Calcio C, a Cesena c’è un portiere assente dai social e presente tra i pali. Pisseri: “Non ne ho mai sentito il bisogno”

Quando nasci a Parma negli Anni Novanta e sogni di diventare un portiere, il tuo modello non può che essere uno. Per la precisione, il numero 1: Gigi Buffon. «Sì - conferma Matteo Pisseri - lui è stato il punto di riferimento per tante generazioni e anche il mio, anche se a 9 anni, prima di passare al Parma, io facevo il centravanti. Ma quando mi chiamarono per un provino, chiesi di farlo da portiere». Con il senno di poi, la scelta è stata azzeccata: oggi Pisseri è un portiere affidabile, che da martedì sera occupa un posto speciale negli almanacchi del Cesena. Nessun bianconero, in Serie C, ha tenuto la porta chiusa per 758 minuti.
Pisseri, ricominciamo da Buffon. Vi siete mai incrociati?
«Abbiamo avuto tanti allenatori in comune, tra cui Fulgoni, il suo scopritore, che a Cesena ha lavorato in Serie A nello staff di Ficcadenti e che proprio qualche mese fa è venuto a trovarmi. Quando feci il primo provino con il Parma, Gigi si allenava nel campo di fianco e proprio Fulgoni mi portò a salutarlo. Ci siamo ritrovati due anni fa ad Alessandria, quando lui giocava nel Parma. Per me è stato un sogno, perché non avrei mai pensato di giocarci contro».
Eppure lei aveva cominciato a giocare come centravanti.
«Sì, nel Montebello, la squadra del mio quartiere a Parma, facevo la punta. Ma il ruolo che sentivo più mio era quello di portiere, perché nel salotto di casa mi tuffavo sempre sul divano e perché in giardino era mio papà che tirava in porta e io che paravo e non viceversa, come di solito capita in tutte le famiglie».
A Parma è andato tutto liscio fino alla Primavera.
«Ho avuto degli ottimi maestri, ma alla fine il precorso è stato travagliato, perché in Primavera sono stato fermo un anno e mezzo. Ho perso gli anni migliori per un infortunio al ginocchio curato male e in tre anni ho fatto cinque partite in Primavera. In quel momento la società venne acquistata da Ghirardi e l’aspetto sportivo passò in secondo piano, quindi il calvario fu doppio, anche se in quel periodo penso di essere diventato adulto più velocemente. Così, a 19 anni, ho cominciato a girare».
In C ha rimbalzato come la pallina di un flipper.
«Sì, ho giocato ovunque: nord, centro, sud, in stadi con 20.000 persone o in campi minuscoli. Tutti le stagioni, dal Renate al Cesena, mi hanno lasciato qualcosa e mi hanno fatto crescere. Penso che la mia forza sia stata proprio questa: aver sempre portato via dai posti in cui giocavo le cose migliori».
Da giovanissimo ha giocato un anno a Catanzaro, poi tre stagioni al Catania.
«Due esperienze bellissime. Il sud ti forgia, ti fa crescere più velocemente, perché le curve sono piene e le pressioni importanti. I tre anni di Catania, dove ho battuto il record di partite consecutive in C (126, ndr), sono stati fondamentali e me ne sono accorto soprattutto quando sono andato via. Al Manuzzi ho ritrovato lo stesso calore. Anzi, qua la curva è molto più vicino e la senti che soffia, come se volesse parare con me».
Dal punto di vista professionale, sul primo gradino del podio c’è Alessandria.
«Ad Alessandria ho raggiunto il risultato più importante. Dopo 10 anni di C è arrivata la promozione in B. La inseguivo da tempo, afferrarla all’ultimo rigore è stato ancora più bello, il coronamento di un percorso sudato».
Nell’esatte 2022 ha debuttato in B. Cosa cambia rispetto alla Serie C?
«In B si alza il livello di tutto. Ma una squadra e un gruppo forte di C possono stare bene anche in B. La A è un altro mondo, la B no. Per un portiere cambia meno: la palla è sempre la stessa e la porta è sempre uguale».
Lei è un calciatore atipico. È vero che non ha i social?
«Sì, è vero. Non mi sono mai posto il problema e non ne ho mai sentito il bisogno».
Qual è la sua dote più grande?
«La calma e la serenità. La spontaneità di stare in porta, di non essere costruito».
Come ha ritrovato Prestia dopo l’esperienza insieme ad Alessandria?
«C’è un bellissimo rapporto, una stima professionale e umana che ci lega da tempo. Lui ad Alessandria faceva il braccetto, ora è il perno. Qua ha trovato il suo ruolo ideale. Merito anche di Toscano, che lo ha voluto lì. Peppe ci insegna che si può crescere sempre, anche a 30 anni».
Prima di scendere in campo contro l’Arezzo, sapeva che avrebbe potuto battere un record che resisteva dagli Anni Sessanta?
«Sapevo di essere vicino a un record, ma non sapevo di cosa si trattasse. Mi ha fatto molto piacere, ma non è un premio individuale, per Pisseri, ma di squadra».
Nelle prime 11 giornate lei incassava un gol a partita di media. Oggi cosa è cambiato rispetto all’inizio?
«Siamo cresciuti mentalmente e tatticamente. Ci conosciamo meglio, a volte giochiamo ad occhi chiusi, c’è un’identità fortissima. All’inizio eravamo meno ludici in alcuni momenti e a volte meno equilibrati».
Avere davanti una difesa così forte e una squadra che spesso non concede tiri agli avversari cosa significa per lei?
«Che ho una grandissima responsabilità, soprattutto quando il risultato è in bilico e un errore può pesare e cambiare una partita. C’è differenza tra giocare in una squadra che punta a vincere, dove ti puoi permettere di sbagliare poco, o in una dove sei più sollecitato. La differenza è soprattutto mentale. Devi essere bravo a gestire le emozioni».
Tra le parate decisive di questa splendida stagione, qual è stata la più difficile?
«Scelgo quella su Comenencia contro la Juventus sullo 0-0. Sono stato bravo a restare in piedi fino alla fine».
Lunedì sera, invece, proverà a prendersi una rivincita contro il Sestri Levante.
«Il primo gol incassato all’andata non mi è piaciuto, però mi è servito molto».