Ravenna. Licenziato 3 volte in 4 mesi dalla Cfs: vince in Appello, risarcimento da 50mila euro

Licenziato per 3 volte nel giro di 4 mesi tra fine 2018 e inizio 2019, ora anche la Corte d’Appello di Bologna gli dà ragione, dopo che a febbraio il giudice del lavoro aveva già sentenziato a suo favore disponendo un risarcimento da 50mila euro. Protagonista della vicenda un dipendente ultracinquantenne della Cfs Europe Spa, multinazionale del settore chimico con sede a Ravenna, difeso dall’avvocata Federica Moschini: la società aveva impugnato il pronunciamento del tribunale del lavoro, ma i giudici bolognesi hanno respinto l’appello condannato la Cfs a pagare la metà delle spese di giudizio, pari complessivamente a 5.400 euro.
Dei tre licenziamenti notificati al dipendente, due erano motivati «per giusta causa» in seguito ad alcune accuse di furto e distrazione che erano state mosse nei suoi confronti: si parlava di «un conteggio di ore anomalo», acquisto di beni «con fatture addebitate alla società, che però non sono stati reperiti in azienda», oltre che di «accesso abusivo ai sistemi informatici aziendali con utilizzo e manipolazione dei dati per fini personali». Accuse che, se reali, risultano tali da configurare un licenziamento «per giusta causa». Ma si sarebbe trattato di «falsità» da parte di un superiore e tali affermazioni sono state infatti ritrattate dallo stesso nel processo penale che lo aveva visto imputato per falsa testimonianza nell’ambito del procedimento davanti al giudice del lavoro.
Contestazioni, quelle nei confronti del dipendente licenziato, «consapevolmente infondate», ma che avevano destato un notevole clamore nell’ambiente di lavoro e in città, anche perché all’uomo era stato revocato il permesso d’accesso all’area del petrolchimico. Modalità, queste, che già a febbraio avevano portato il giudice del lavoro ad affermare «l’ingiuriosità del licenziamento».
E ora la Corte d’Appello conferma quella sentenza, rigettando le argomentazioni presentate dai legali della Cfs, le avvocate Maria Grazia Limone e Claudia Gregori. Tra i motivi di impugnazione della prima sentenza, la società sosteneva che il Tribunale del Lavoro avesse «confuso, o comunque sovrapposto, il concetto di licenziamento ingiurioso con quello di licenziamento illegittimo» e considerava inoltre eccessiva «la modalità di liquidazione del danno» che era stato quantificato in 50mila euro. Una cifra che, osserva la Corte d’Appello presieduta dal giudice Carlo Coco, è in linea con le tabelle «elaborate per la liquidazione del danno da diffamazione». Quanto alla distinzione tra licenziamento ingiurioso e illegittimo, anche la corte felsinea conferma che ci si sarebbe trovati di fronte al primo dei due casi, essendo «manifesta l’infondatezza» delle ragioni che hanno portato alla reiterazione del recesso. Va poi considerata, si legge nella sentenza, «la più che prevedibile notorietà connessa alla revoca immediata del badge», che per la Corte d’Appello porta a ravvisare per la società un «animus nocendi», ovvero un’intenzione di nuocere, «che va ben oltre il legittimo esercizio del presunto, ancorché infondato, diritto di recesso».