Il genius loci è a Ravenna, parola di James Hillman

Bizantinista illustre e docente all’università Roma Tre, Silvia Ronchey ci consegna il testamento intellettuale del filosofo e psicoanalista James Hillman, nato da una visita illuminante ai mosaici di Ravenna: L’ultima immagine (Rizzoli) è «la summa e l’ultimo approdo – scrive l’editore – della riflessione sull’immagine, che fin dall’inizio sostanzia la sua idea di anima e tutta la sua psicologia».

Silvia Ronchey, come è iniziato il viaggio a Ravenna raccontato nel libro?

«È stata una idea di Hillman che, nell’estate del 2008, mi ha chiesto di partecipare con lui a questo primo suo approccio con le immagini straordinarie di Ravenna, luogo dove non era mai stato: voleva scrivere un libro, un dialogo, che fosse il modo per pagare il debito che aveva con il suo maestro, Jung, sul concetto di immagine: aveva bisogno di chiarire e di sintetizzare in un libro le sue idee sull’immagine, e pensava che la risonanza psichica, l’incontro immediato con immagini di tale potenza come i mosaici di Ravenna , avrebbe prodotto in lui qualche cosa che avrebbe toccato direttamente la psiche, che avrebbe in qualche modo aiutato la sua teoria dell’immagine a manifestarsi. Quindi siamo partiti, siamo arrivati a Ravenna e abbiamo passato una decina di giorni visitando queste chiese, come lui le chiamava (le chiamava tutte chiese, da bravo ebreo non tanto frequentatore della storia cristiana). È stata tra l’altro una cosa molto piacevole per lui, che era felice, entusiasta: aldilà dello scopo tecnico del viaggio, c’era anche proprio la gioia, l’emozione, della bellezza, della dolcezza, dell’ospitalità di Ravenna, che avrebbe sempre ricordato anche nel periodo della malattia».

Qual è stata l’influenza di questo viaggio sulle teorie di Hillman?

«Lui ha scoperto il mosaico. E ha visto nel mosaico l’epitome, la dimostrazione di una visione della realtà che non è mai una, ma è composta da un’infinità di frammenti che faticosamente la psiche, l’anima, cerca di mettere insieme, non sempre riuscendoci. L’immagine è anche questo, cioè è un lavoro dell’anima. Lui diceva sempre che l’atto del fare immagine è equivalente all’atto del fare anima, dove il fare anima è la parola d’ordine del suo pensiero, cioè l’anima va costruita e si costruisce attraverso l’immagine. Quindi si immagini l’effetto che già semplicemente il mosaico in quanto tale faceva, a conferma proprio di questa idea di una immagine che si costruisce attraverso tanti frammenti, perché il mondo non è una cosa data: il mondo è una cosa frammentaria attraverso le cui crepe, gli interstizi fra una tessera e l’altra, si intravede un qualche cosa che è aldilà dell’apparenza, quella misura di mistero, quell’altra dimensione che è la dimensione dell’inconscio, la dimensione dell’anima, è lo spazio in cui avviene l’unione tra l’anima individuale e l’anima del mondo. Per Hillman non è che l’anima è in noi: noi siamo dentro l’anima, la nostra anima è parte di un’anima collettiva e quest’anima collettiva è qualcosa che si intravede a volte tra gli interstizi della realtà materiale».

Il libro è costruito come un dialogo: qual è il contributo dell’una e dell’altro nella sua costruzione?

«Il dialogo per lui era da sempre la forma della sua creazione intellettuale: per lui il libro doveva avere un senso, un’esigenza di scambio con qualcuno, magari con un’assemblea collettiva. Era una sfida, la scrittura non era una cosa piatta e non era qualcosa che faceva da solo: c’era bisogno di qualche comprimario che, appunto come nei dialoghi platonici, gli facesse da spalla proprio in questo andamento verticale, in cui lui costruiva appoggiando sulla reazione che riceveva, e lui creava, innovava, cambiava completamente struttura, punto di vista. Questa è una delle cose più affascinanti e tra l’altro è stato così che è iniziato il nostro sodalizio, alla fine degli anni Novanta, da un’intervista televisiva in cui c’era una scaletta che lui ha completamente sovvertito sin dall’inizio, e io mi sono divertita moltissimo, con terrore naturalmente del regista, a seguirlo in questa arrampicata».

Il libro è un po’ il suo testamento.

«Io dicevo sempre “sto tessendo un lenzuolo funebre, lo sto tessendo e lo sto ricamando con le gesta dell’eroe”, come facevano le donne dell’antica Grecia: quando muore un eroe si comincia dalla tessitura del lenzuolo, la trama e l’ordito, e poi lo si ricama in modo che le sembianze dell’eroe siano restituite e le sue gesta. Ecco io ho cercato di fare questo: ho cercato di restituire, in questo omaggio, che nasce dalle sue cose, di restituire le sembianze come lui desiderava perché lo considerava il suo testamento, ed è per questo che aveva tanto insistito a terminarlo nonostante la sua incredibile fragilità proprio a pochissimi giorni dalla morte».

Il femminile secondo Hillman pervadeva ogni aspetto delle immagini presenti nelle nostre “chiese”: in che modo?

«Lui cercava, come una specie di segugio: cercava divinità, cercava il genius loci e lo ha trovato, ha subito avvertito un’essenza femminile . Particolarmente entrando nel mausoleo di Galla Placidia, non tanto perché fosse legato a una figura femminile – anche per questo –, ma proprio sentendo questo senso della dolcezza, dell’inclusione, dell’ospitalità, poi vedendo queste simbologie femminili, che lui, aldilà dell’iconografia cristiana, scorgeva: le colombe di Afrodite, e poi il corteo femminile di Sant’Apollinare Nuovo, naturalmente a San Vitale il volto di Teodora, che diventa il punto di partenza per una riflessione sull’icona, cioè su che cos’è la rappresentazione iconica di un volto; fino a questa specie di agnizione finale per cui alla fine il genius loci è la dama che visitò Boezio, cioè la filosofia. Aldilà di queste grandi donne che ci sono state, c’è qualcosa di particolarmente accogliente, dolce, inclusivo, una molteplicità della storia di Ravenna, una dolcezza di vita che lui avvertiva e in cui si sentiva particolarmente coccolato da questa città».

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