Tagliavini: "Ecco come Ravenna in lockdown è diventato il mio set"

Ravenna

RAVENNA - Venti mesi di lavoro per raccontare la pandemia che ha cambiato il mondo. Nel documentario “2020: nascita e morte di un virus”, il regista Edo Tagliavini ritrae una Ravenna spettrale in un mondo impazzito; alle immagini di una piazza del Popolo baciata dal sole di primavera, ma deserta, si sovrappongono le dichiarazioni dei grandi della terra – Boris Johnson, Donald Trump, Giuseppe Conte – che alimentano caos e incertezza. Il cineasta ravennate ha dato vita un caleidoscopio di immagini raccolte da notiziari, reportage, telegiornali e video di tutto il mondo: un grande mosaico visivo in grado di ripercorrere gli effetti del virus sull’umanità. L’opera, proiettata nei giorni scorsi in anteprima al festival Corti da Sogni al cinema Mariani di Ravenna, è ancora in via di completamento e l’obiettivo è presentarla alle selezioni del David di Donatello, nella sezione riservata ai documentari.


Tagliavini, come nasce questo lavoro di raccolta di immagini e di narrazione degli eventi che hanno segnato il 2020?
«Nell’opera c’è tutto il mio amore per il cinema. C’è tutto di me. La mia passione per i film, le immagini e i videogiochi. È un lavoro nato quasi per gioco nei primi giorni in cui si iniziava a capire che, anche in Italia, sarebbe arrivato qualcosa di semplicemente inimmaginabile. Le scene in esterno sono state girate in due sole giornate. La prima è stata il 18 marzo; mi sono affidato a una Canon per riprendere i luoghi della nostra città che mai ci saremmo immaginati deserti, piazza del Popolo, via Cavour, via Maggiore, l’ingresso del mercato Coperto. Luoghi che, senza il virus, sarebbero stati affollati. Mi sono reso conto dell’impatto visivo delle immagini, così sono uscito in strada un’altra volta ma con in mano un’attrezzatura diversa, in grado di cogliere anche altri aspetti. Di quei giorni ricordo il silenzio, soprattutto alla sera, una sensazione assoluta che avevo provato soltanto molti anni fa quando mi ero addentrato nella foresta vergine del Guatemala. Sembra impossibile, ma è così».

Ha pensato subito a un documentario o l’intenzione iniziale era diversa?
«L’idea originale era differente, avevo in mente di realizzare un cortometraggio di pochi minuti, ma poi la realtà ha superato l’immaginazione. Il compito del cinema è anche interpretare ciò che è intorno a noi, così mi sono buttato in questa impresa che finalmente è in dirittura d’arrivo. Ricostruisco, in ordine cronologico, tutto quello che è avvenuto da quando sono rimbalzate le voci dell’esistenza di uno strano virus a Wuhan fino agli ultimi giorni del 2020 quando sono arrivati i vaccini. Ho prodotto una timeline degli eventi recuperando i notiziari, le interviste, le dichiarazioni, i reportage che si sono susseguiti in tutto il mondo. Il corto inizialmente racconta di qualcosa che colpisce persone molto lontane da noi, ma in poche settimane la situazione muta e anche noi siamo risucchiati nell’incubo, segregati in casa. C’è anche l’evoluzione degli stati d’animo. Se nei primi minuti dell’opera si vedono i balconi da cui la gente canta cercando di reagire, poi le immagini si soffermano sulle dichiarazioni di emergenza, sulle rivolte e sulla rabbia crescente della gente. Riassumere tutti questi eventi è stata una sfida professionale e tecnica».

Dal punto di vista cinematografico, quale opportunità è stata poter filmare una città deserta?
«E’ stata un’occasione irripetibile. Soltanto le grandi produzioni possono permettersi qualcosa di simile. Penso al regista Danny Boyle che nel film “28 giorni dopo” riprende una Londra deserta a causa di un terribile virus. Boyle è stato quasi profetico e alcune delle mie inquadrature rendono omaggio a quel film».

L’umanità come esce dal 2020?
«Abbiamo avuto una grande occasione: avremmo potuto fare un reset complessivo e ripartire con regole più eque, creando una società più giusta. Il fallimento mi pare evidente, come sempre le logiche dell’economia e del capitalismo hanno preso il sopravvento».

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