Annaud: «Ho amato Fellini e ho avuto la fortuna di poterglielo dire»

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RAVENNA. Un’edizione speciale dell’Anello d’oro del Nightmare film fest va a impreziosire la già ricchissima carriera del regista francese Jean-Jacques Annaud, che è intervenuto mercoledì a Ravenna per ritirare il premio e inaugurare la 17ª edizione della manifestazione diretta da Franco Calandrini.
L’autore de “Il nome della rosa”, “Il nemico alle porte”, “Sette anni in Tibet”, “L’ultimo lupo”, è stato accolto in città. Ravenna raramente ha l’occasione di misurarsi con un Premio Oscar, ma il Nightmare sembra averci preso gusto a stupire il suo pubblico visto che l’anno scorso ha ospitato David Lynch.
Annaud si è presentato all’incontro con i giornalisti con un entusiasmo contagioso verso il cinema e l’arte. A fronte dei suoi 76 anni, il cineasta è al momento più che mai in attività. È impegnato nella realizzazione di un film e di una serie per la televisione.
«Quando sento l’ispirazione giusta non posso fermarmi – ha spiegato –. Ho realizzato opere in cui credevo ciecamente, anche quando gli altri tentavano di farmi desistere. Ho vinto l’Oscar nel 1976 con il mio primo film “Bianco e nero a colori”. Mi ricordo che l’arrivo in sala fu seguito da uno scarso successo al botteghino, ma poi arrivò quella statuetta che ha decisamente cambiato le sorti del film e probabilmente della mia carriera. Ai giovani cineasti che mi chiedono un consiglio dico sempre di affidarsi al loro istinto e di non demordere. Quando si realizza un’opera non bisogna pensare al successo che potrà avere, occorre seguire le proprie idee».
Tra i film che l’hanno fatta conoscere al grande pubblico c’è “Il nome della rosa” con protagonista Sean Connery. Quanto è stato complicato trasporre sul grande schermo il romanzo di Umberto Eco?
«Io e Umberto abbiamo instaurato un solido rapporto di amicizia, e so per certo che l’idea che qualcuno osasse portare sul grande schermo il suo romanzo non l’aveva nemmeno sfiorato. Poi arrivai io e acquistammo i diritti. Con quei soldi Umberto si comprò una Volvo arancione usata che poi in un secondo momento mi mostrò. Per me fu una sfida molto ardua trasformare il libro in un film. Era un romanzo amatissimo dal pubblico e sentii tutta la responsabilità. Alla fine, presi la mia strada e raccontai come avevo vissuto nella mia testa il libro».
Eco come visse la trasformazione dell’opera in un film?
«Mi ricordo ancora un episodio che avvenne a casa sua. Il film era appena terminato quando il telefono squillò, rispose la moglie di Umberto che era tedesca. La sentimmo parlare con un giornalista straniero che le disse che in Germania il libro aveva venduto 900mila copie in pochi giorni. Umberto venne da me entusiasta e mi disse: “Ti immagini se tutti questi lettori andranno a vedere il film?”. Io gli risposi che 900mila spettatori per me erano pochissimi e se ci fossimo fermati a quel numero probabilmente non mi avrebbero più fatto girare alcunché. Il cinema ha la capacità di allargare gli orizzonti e raccontare storie che verranno vissute e conosciute da un pubblico vastissimo».
Il prossimo anno cade il centenario della nascita di Federico Fellini: quale rapporto ha avuto con il regista riminese. Ne è stato in qualche modo ispirato?
«Da studente, quando ho frequentato la scuola di cinema in Francia, adoravo i registi italiani, giapponesi e russi. Sono sempre stato un ammiratore di Fellini e ho avuto la fortuna di poterglielo dire di persona. Il mio film preferito in assoluto di Federico è “Amarcord”. Per “Il nome della rosa” ho scelto di avvalermi del direttore di fotografia Tonino Delli Colli che avevo apprezzato nei film di Fellini. Federico mi fece anche un grandissimo regalo venendo più volte a trovarmi sul set de “Il nome della rosa”. Allora ero un regista giovane e Federico mi disse che ero molto fortunato ad avere così tanta libertà d’azione. Mi confessò anche una cosa che mi toccò profondamente. Disse che in Italia era famosissimo e che tutti erano interessati a conoscerlo, ma non vedeva più un simile trasporto nei confronti dei suoi film. Per me Fellini è un grande maestro con capolavori quali “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “Otto e mezzo”. Altri registi italiani che ho amato sono Ettore Scola, Dino Risi, Luchino Visconti e Antonioni».
Quanto è cambiato il cinema da quando ha iniziato a cimentarsi con la macchina da presa?
«C’è stata una rivoluzione – conclude Annaud, che era in sala accompagnato dalla moglie –. Una volta il film era realizzato per essere visto nei cinema; poi è arrivato con tutta la sua forza il mezzo televisivo. Ci siamo dovuti adattare e cambiare in parte il nostro linguaggio. Ora la sfida è divenuta ancora più ardua: i nostri film vengono sempre più visti da uno smartphone con lo schermo grande una manciata di pollici».

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