Viaggio dentro Sanpa: chi era Vincenzo Muccioli

Rimini

Oltre quaranta anni fa ha diviso un’Italia impreparata ad affrontare il ciclone eroina che si abbatteva sulle famiglie strappando migliaia di giovani alla vita, a un quarto di secolo dalla sua morte torna a spaccare un’opinione pubblica che si approccia alla figura di Vincenzo Muccioli con un grossissimo vizio di fondo: guardare la sua persona e le sue opere con gli occhi di oggi. Questa è la premessa d’obbligo nel provare a ricostruirne il profilo, cercare cioè di farlo con la testa e i pensieri trasportati a ritroso agli anni Ottanta e Novanta. Per questo, la domanda delle domande a preambolo del trailer della docuserie Netflix – “Per fare del bene puoi usare qualunque metodo?” – è quantomeno anacronistica. Basta riguardarsi un qualsiasi film dell’epoca, anche una commedia all’italiana, o ritornare idealmente sui banchi di scuola del tempo per capire come quello che oggi è un certo “male” allora fosse la quotidianità. L’altra premessa d’obbligo è che Muccioli era un uomo. Non era “Dio tornato sulla terra”, né un santo o un santone (e anche a tal proposito alzi la mano l’adolescente degli anni Ottanta che non ha fatto, o creduto di fare una seduta spiritica con un foglio cartonato, una moneta e un bicchiere), ma un uomo. E come tale un essere potenzialmente capace di grandi cose, ma anche di errori. Di certo era un uomo non comune e controcorrente.

Nessuna chiesa né cattolica, né comunista

«Il peccato originale di Vincenzo è che non apparteneva a nessuna chiesa, né quella cattolica e neppure a quella comunista. Nella nostra mentalità, si pensa che chi fa del bene debba appartenere a una delle due ed essere irreprensibile in tutto, lui aveva le sue caratteristiche che andavano oltre e per questo all’inizio si è ritrovato contro sia la Curia che la politica» spiega Andrea Basagni, che da caporedattore del principale quotidiano cittadino provò subito sulla sua pelle quanto Muccioli fosse uomo di grandi slanci di affetto e generosità ma anche di feroce irruenza. «C’era questa casa colonica che nessuno ancora chiamava San Patrignano e che il Comune di Coriano, i carabinieri, l’autorità sanitaria e la Prefettura bollavano come un covo di delinquenti e di gente con chilometri di precedenti. Una sorta di pericolosa comunità hippie fatta di persone dai capelli lunghi che venivano dalla galera, dalla piazza, dal buco… Sul giornale riportammo tale pensiero comune e il giorno che uscì il primo articolo fui investito da una telefonata furiosa di Vincenzo: “Le cose bisogna vederle e conoscerle per scriverle, siete dei farabutti, dei prezzolati” mi gridò e ricordo ancora benissimo quelle urla che mi toccarono al punto da chiamare il fotografo, salire in macchina e presentarmi subito da lui, venendo a contatto per la prima volta direttamente con il mondo della tossicodipendenza. Davanti al cancello trovai una quindicina di tossici dalle storie incredibili, che lui mi raccontava senza che loro provassero a negare o giustificare. Lì ho capito subito il magnetismo che sapeva esercitare con la sua personalità fortissima e fuori dal comune, quanta presa incredibile aveva in un periodo di grande confusione generale».

Nella comunità erano tutti uguali

Magnetismo che è il vero fil rouge che lega a filo doppio tutti coloro che sono entrati in contatto o in contrasto con il fondatore di SanPa, insieme all’innata capacità di far sentire ugualmente considerato e importante sia l’eroinomane fantasma della società che la società fingeva di non vedere e che gli chiedeva di poter diventare suo ospite, sia il semplice visitatore curioso o “in missione” per lavoro. «Vincenzo era sempre fra noi, c’era sempre e si preoccupava ogni giorno di ognuno. Per anni è stato lui la cura, è stato lui San Patrignano» ripete all’infinito un 40enne cresciuto in comunità fin dai primi vagiti, mentre ancora Basagni pone l’accento su quello «che era il vero metodo Muccioli». Non solo accogliere i tossicodipendenti gratuitamente, «ma far fare loro tutto il contrario di quello che erano abituati a fare. Non si cambiavano mai? A SanPa dovevano fare la doccia tutti i giorni. Bevevano e fumavano a piacimento? A SanPa le sigarette erano contate e il vino limitato a un bicchiere. Non facevano niente e stavano in piazza o al parco? Lì dovevano lavorare e avevano decine di opportunità diverse per trovare la propria inclinazione e farlo. Tutto controllato in prima persona fra le polemiche generali». Rammaricandosi di come fra le altre cose non sia stato ricordato che «quel metodo era studiato in mezzo mondo, tanto che Reagan inviò i suoi esperti e gli vennero fatte offerte per costruire strutture simili negli Stati Uniti» e che «fu l’unica comunità a ottenere una certificazione non di parte, ma di iniziativa dell’Università di Bologna con tanto di indici di guarigione e occupazione».

I genitori in tribunale “Meglio morti che drogati”

«Le catene ci sono state e c’è una verità processuale su questo, ma vanno contestualizzate al tempo e alla situazione generale. L’ho conosciuto il giorno che uscì dal carcere e mi è sempre rimasto impresso il fatto che quando lo vidi per la prima volta c’erano dei genitori sul cancello che dei figli dicevano “Meglio morti che drogati”. Avevo 20 anni, la droga per me era un universo sconosciuto e non me lo dimenticherò mai». A dirlo è una donna di legge, l’avvocato Maria Pia Amaduzzi che, una volta superato l’esame da procuratore, fu convinta dallo stesso Muccioli a lavorare per SanPa aprendo l’ufficio legale della Comunità. «Oltre che carismatico, magnetico, dagli occhi brillanti e affettuoso con i ragazzi è sempre stato rispettoso della professionalità: avevo a che fare con soggetti difficilissimi (ma non ho mai avuto paura neanche nelle trasferte con loro in mezza Europa) e soprattutto con il fatto che i tempi dei procedimenti civili non coincidevano con quelli dei programmi di recupero, ma non mi ha mai forzata in niente. Non ho avuto condizionamenti o richieste nel merito pur essendo lui quello che poi doveva fare le relazioni sugli ospiti» aggiunge, chiosando: «Come ogni uomo può aver avuto le sue contraddizioni, ma il calore di quegli abbracci con Vincenzo e i ragazzi ancora devo ritrovarlo. C’era dentro un mondo, con tutto ciò che comportava. Ancora sento addosso la pienezza di certi sguardi, l’umanità che si respirava in quella che è stata una palestra di vita e di diritto». Ed è stato forse proprio quel calore il vero “capolavoro” di Muccioli, il collante con cui ha tenuto in piedi e sviluppato all’inverosimile per 17 anni quella comunità in grado di sopravvivergli anche al di là degli eventuali umani errori personali e oggi ancora più grande e più forte. Una sorta di paese all’avanguardia che recupera centinaia di persone dal tunnel della droga regalando un presente e un futuro fatto di lavoro e produzione.

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