Biochar, il carbone che aiuta suoli e clima

Verde

Da materiali di scarto a risorsa per il clima. Da residui vegetali a carbonio stabile capace di migliorare i suoli e trattenere CO2. Il biochar, di cui oggi tornano a parlare scienziati, aziende e decisori politici, non è affatto una scoperta recente: affonda le sue radici in pratiche millenarie delle popolazioni indigene dell’Amazzonia. Ne parliamo con Alessandro Girolamo Rombolà, professore associato al Dipartimento di Chimica “G. Ciamician” dell’Università di Bologna, in forza tra le aule e i laboratori di Ravenna e Rimini, che da oltre quindici anni studia le proprietà e le applicazioni di questo affascinante carbone vegetale.

Professore, partiamo dalle origini: che cos’è il biochar e come nasce l’interesse scientifico verso questo materiale?

«Il termine biochar indica un residuo carbonioso ottenuto dalla decomposizione termochimica di materiale organico - in genere residui vegetali - attraverso un processo chiamato pirolisi, che avviene ad alte temperature e in assenza di ossigeno. L’interesse internazionale esplode tra il 2002 e il 2007 grazie ai lavori del ricercatore Johannes Lehmann della Cornell University. Ma la storia è molto più antica: tutto parte dai misteriosi terra preta, i suoli neri amazzonici. Già nel Cinquecento un conquistatore spagnolo aveva descritto aree di foresta insolitamente fertili, probabilmente un tempo abitate da popolazioni indigene precolombiane stanziali. Due secoli dopo, quando quei popoli erano ormai scomparsi, quei suoli erano ancora scurissimi e produttivi. Negli anni Settanta il ricercatore olandese Wim Sombroek iniziò a studiarli e scoprì che quella fertilità eccezionale era dovuta proprio a un carbone vegetale creato intenzionalmente e interrato per secoli. Con la ricerca abbiamo capito che quel materiale è ciò che oggi chiamiamo biochar».

Quali sono le proprietà che rendono il biochar così interessante per l’ambiente?

«Il biochar è innanzitutto un ammendante: migliora le caratteristiche fisiche e chimiche dei suoli. Può aumentare il contenuto di carbonio, modificare il pH - spesso rendendo fertile un terreno acido - trattenere nutrienti come potassio e azoto e rilasciarli in modo graduale. Insomma, agisce un po’ come una spugna. Ma c’è un secondo aspetto fondamentale: la stabilità. Quando un residuo vegetale è lasciato sul terreno, si decompone e la CO2 assorbita dalla pianta ritorna rapidamente in atmosfera. Se invece quella biomassa è trasformata in biochar, il carbonio viene stabilizzato e può restare nel suolo per centinaia o migliaia di anni. Questo significa che il biochar è anche una soluzione di carbon sequestration: contribuisce davvero a trattenere CO2 e a ridurre i gas serra».

È corretto dire che il biochar trasforma i rifiuti in risorse?

«Sì. In Italia la normativa permette di utilizzare come materia prima solo residui vegetali: potature, scarti agricoli, legno non trattato. Materiali che altrimenti rappresenterebbero un costo o finirebbero per degradarsi rilasciando CO2. Il biochar li trasforma in una risorsa utile al suolo e al clima. Secondo l’associazione Ichar (Associazione Italiana Biochar), basterebbe convertire in biochar il 3% dei residui vegetali italiani per stoccare una quantità di CO2 paragonabile a quella prevista dal Protocollo di Kyoto».

Il biochar può diventare strategico per l’agricoltura e l’economia circolare del nostro Paese?

«Sicuramente può contribuire. Non è la soluzione a tutti i problemi, ma ha un potenziale grande. Funziona benissimo su suoli acidi o poveri, come quelli amazzonici o altri ambienti degradati. In Italia ci sono già aziende che lo producono e dal 2015 è riconosciuto come ammendante agricolo. Detto questo, ci sono limiti reali: produrre e applicare biochar su larga scala può essere costoso. Per trattare un ettaro servono anche 20 tonnellate di prodotto, e oggi un agricoltore non recupererebbe l’investimento nel breve periodo. Per altre applicazioni, invece, è già competitivo: per esempio nel trattamento delle acque, perché funziona come un filtro e può trattenere contaminanti, un po’ come il carbone attivo delle caraffe domestiche».

La comunità scientifica punta molto sul biochar: quali prospettive vede per i prossimi anni?

«La crescita della ricerca è impressionante: si è passati da 40 pubblicazioni nel 2007 alle oltre 1.300 annue degli ultimi anni, per un totale di circa 40.000 articoli scientifici. Questo perché il biochar è un materiale estremamente eterogeneo e quindi ricco di potenzialità: cambia molto in base alla biomassa di partenza e alla temperatura di produzione. Nel futuro vedo due direzioni principali: uso agricolo mirato - su suoli specifici e per colture specifiche - e applicazioni ambientali ad alto valore, come filtrazione e depurazione. Non credo che il biochar risolverà da solo il problema del clima, ma può dare un contributo concreto alla riduzione della CO2 e alla rigenerazione dei suoli. Studiare resta fondamentale: le popolazioni indigene lo usavano già mille anni fa, ora la scienza può farne uno strumento moderno per l’ambiente».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui