Vent’anni fa l’ex prostituta liberata da don Oreste Benzi incontra il Papa

Rimini

RIMINI. A vent’anni dall’incontro tra papa Giovanni Paolo II e Anna, l’ex prostituta liberata da don Oreste Benzi, sulle strade di Rimini si vedono ancora brillare i “fuochi” delle lucciole in piedi ai margini della statale. «Non tante quante ce n’erano nei primi anni ‘90, ai tempi in cui Don Oreste iniziò la sua opera di liberazione delle donne dalla schiavitù del sesso» racconta Giampiero Cofano, il responsabile antitratta della Papa Giovanni XXIII, che ha affiancato il religioso oggi in odore di santità durante tutta la sua “battaglia”. «Dopo il periodo tra il ‘98 e il 2006, in cui Rimini poteva dirsi l’unica città italiana affrancata dalla prostituzione, con l’ingresso nell’Unione europea degli Stati dell’Est come la Romania o la Bulgaria, le strade hanno ricominciato a popolarsi. Il rilascio del permesso di soggiorno aveva perso tutta la sua forza attrattiva per le ragazze che volevamo convincere a lasciare la strada».

Cofano, quante sono oggi le donne sulle strade riminesi?
«Circa un centinaio, ma non è facile dare una risposta a questa domanda. Innanzitutto perché il numero delle donne che si prostituisce varia molto in base al periodo, con picchi in concomitanza con le manifestazioni fieristiche. Quando ci sono questi eventi, le donne arrivano anche dalle altre province. Aumenta la domanda e quindi cresce l’offerta E poi, rispetto a un tempo, è anche più diffusa la prostituzione in casa, un fenomeno per certi versi, paradossalmente, ancora più pericoloso per le ragazze».

Perché più pericoloso?
«Perché se in strada vengono aggredite hanno la possibilità di scappare, possono rifiutare di salire in macchina con un cliente, invece se questo bussa alla porta è più difficile per loro sottrarsi. Inoltre, per noi è più complesso instaurare un rapporto di fiducia con le donne che si prostituiscono in casa. Però, quando abbiamo segnalazioni interveniamo sempre, oppure provvediamo noi a contattarle anche approfittando degli stessi annunci che pubblicano le ragazze».

Se rispetto a 20 anni fa sono cambiate modalità e numeri, cosa invece è rimasto uguale?
«Il fatto che non ci si prostituisce per soldi, ma per fame. Che nessuna di loro, se avesse un lavoro dignitoso, andrebbe o sarebbe andata con uno dei “porci italiani”, come li definiscono le ragazze che accogliamo. Spesso capita che nei primi tempi, dopo aver lasciato la strada, le donne si facciano continuamente la doccia: vogliono togliersi dalla pelle la puzza di sudore dei clienti con cui sono state».

Anche in Anna, la prima prostituta che 20 anni fa incontrò il Papa, vedeva le stesse sofferenze?
«Sì, Anna, poi, era nigeriana, per cui soffrì molto anche per i riti woodoo cui era stata sottoposta. Oltre all’Aids, che contrasse proprio in strada, lei risentì anche dal punto vista psicologico per la pressione dei riti woodoo, quelli che fanno alle ragazze africane, soprattutto nigeriane, per farle sentire costrette a ripagare il debito con chi le ha condotte in Italia, pena indicibili sofferenze e dolore. Anna, però, aveva una forte fede in Dio, era molto legata a Don Oreste Benzi. Fu incredibilmente felice quando incontrò il Papa».

Prima dell’avvento di don Oreste, l’idea della prostituzione era completamente avulsa dall’aspetto della schiavitù e della costrizione?
«Sì, si credeva che le donne che si prostituivano lo facessero per scelta o per piacere. All’inizio in molti davano a Don Oreste del pazzo, ma lui era convinto che fosse impossibile che una ragazza arrivasse in Italia da sola da un Paese come la Nigeria, senza nessuno che la “coordinasse”. Così si decise a studiare il fenomeno andando sul posto, parlando con le donne, indagando in prima persona. Scoprì lo schiavismo che c’era dietro, lo sfruttamento, il dolore e la sofferenza. Fu merito anche di Don Oreste se il primo processo per riduzione alla schiavitù fu celebrato a Rimini, nel ‘96, dove una serie di ragazze nigeriane testimoniarono, a fianco dello stesso don Benzi. Nel 1998, invece, riuscì ad ottenere il riconoscimento dello status per la protezione di vittime di tratta, formalizzato nell’articolo 18 della legge 286 del 1998. La ritengo una delle azioni più importanti, perché si tratta di una norma oggi ancora in vigore, che ha reso l’Italia un esempio da seguire in tutta Europa».

Parlare di legalizzazione della prostituzione sarebbe assurdo, nell’ottica del loro allontanamento dalle strade?
«Sì, non si può prendere in considerazione l’idea di legalizzare uno stupro. Perché di questo si tratta. Non è questione di essere laici o cattolici “bigotti”. La mercificazione del corpo umano non può essere legge. Anche perché nei Paesi in cui la prostituzione è legale, le donne in strada ci sono ancora. Per una ragione molto semplice, costano meno rispetto a quelle che si prostituiscono “a norma di legge” nei bordelli. E la mafia, inoltre, non ha grosse difficoltà a prendere in gestione il fenomeno, anche se legalizzato».

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