Un’allegra sagra con aspetti scanzonati e irriverenti

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Era la gioia degli adolescenti e si esprimeva in una allegra scampagnata sul fiacre per le strade della città. Si chiamava sumarlungosumarlòng per i puristi della lingua – e si ripeteva tutti i lunedì di Pasqua con partenza dal sobborgo Marina. Tre erano le mete preferite: lo Stabilimento balneare, la chiesa della Colonnella e la collina del Covignano. Naturalmente i centesimi che venivano dati al cocchiere per il “servizio” aumentavano in rapporto alla distanza. Più numerosa era la combriccola, che saliva sulla vettura, più divertente era la scarrozzata. E durante il percorso tutti insieme a stupire i passanti che capitavano a tiro con sberleffi, schiamazzi e canti d’ogni genere. Era tanto lo spasso per il baccanale prodotto in vettura, che se qualcuno trovava l’opportunità di inserirsi in comitive affiatate e rumorose ripeteva la “gita” più d’una volta. Uno svago alla buona e un po’ bislacco, ma pienamente consono alla semplicità dei costumi e dei gusti di una piccola città di provincia del tutto ignara che col tempo sarebbe diventata la metropoli balneare del divertimento più sfizioso. Sulle origini di questa antica festa popolare – scomparsa negli anni Cinquanta del Novecento – menzionata anche da Luigi Tonini (1807-1874) nella sua Storia di Rimini, si hanno più versioni. Chi sostiene che sia nata come gara di salto longitudinale dell’asino e chi invece come gara di carico; in questo caso vinceva il gruppo più numeroso che riusciva a starsene in equilibrio sulla groppa del quadrupede. In ambedue le ipotesi la preferenza andava al somaro più lungo: da qui il nome di sumarlungo. Un’altra tesi, dalla genesi più sofisticata, si rifà ad una stravaganza dei giovani marinai, i cosiddetti murè. Si racconta che questi ragazzi volendo provare la divagazione terrestre più in contrasto con quella nautica, scegliessero per burla l’equitazione. Tutti i lunedì di Pasqua si presentavano sul piazzale della chiesa di San Nicolò e affittavano per un bajocco il somarello di qualche ortolano del posto per una cavalcata sino al bagnasciuga. Anche in questo caso la scelta si orientava verso l’animale più lungo per poterlo montare in quattro o in cinque alla volta e rendere più comica l’“escursione”. Col passare degli anni la frenesia di ampliare sempre di più il numero dei gitanti sostituiva l’asino, che ormai aveva fatto il suo tempo, con la carrozza tirata dal cavallo. E così le ondate di fiacre rigurgitanti di giovanotti euforici e vocianti attaccati ad ogni sporgenza della vettura, aggrappati persino alle ginocchia ed alle spalle del brumista, diventavano il tradizionale rito di quel giorno di festa. Durante la scorribanda del sumarlungo, proprio per il suo aspetto scanzonato, era ritenuto lecito cantare di tutto. Anche filastrocche messe all’indice dalle convenzioni sociali o dalla buona creanza. Una sorta di percorso franco. Complici di questa vanteria erano gli stessi fiaccherai, una categoria indomita, sanguigna, perennemente avversa all’autorità costituita. Urlare a squarciagola le canzoni ritenute irriverenti o addirittura sovversive era per la vivace masnada una godibile sfida ai limiti della provocazione. Sotto il governo del Papa s’intonavano le litanie anticlericali; con l’avvento dei Savoia vennero di moda gl’inni anarchici e l’Internazionale; nel Ventennio fu la volta di Bandiera rossa, canto sovversivo per eccellenza. Non sempre tuttavia la trasgressione filava liscia. Soprattutto durante il periodo fascista più di una volta la beffa, dato l’orecchio vigile delle camicie nere, si concludeva con un epilogo amaro. Un finale a sorpresa del sumarlungo, edizione 1925, ce lo fornisce La prora, settimanale politico riminese che si qualifica fascista e “Per l’Italia imperiale”. «La tradizionale festa popolare – scrive compiaciuto il periodico il 15 aprile – ha portato quest’anno fiori poco simpatici di manganello a quattro vetturini, che, forse inebriati dalla splendida giornata primaverile, davano il tono di Bandiera rossa ai marmocchi che trasportavano. Il canto si elevava così fragorosamente che, udito dai fascisti, ha avuto l’effetto di far piovere qualche cazzotto sul groppone degli incauti vetturini. L’episodio insignificante non ha alterato per nulla la gioconda fisionomia della simpatica festa riminese che ha trascinato sui colli delle Grazie la consueta enorme folla di tutti gli anni». La Prora non fornisce i nomi dei quattro vetturini, per cui non sappiamo se tra di essi ci fosse anche un certo Tugnoti, abitante nel borgo San Giuliano, che anni prima aveva avuto gli onori della cronaca riminese per un «diverbio politico». Tugnoti in quella furibonda circostanza si era fatto medicare al nosocomio per escoriazioni al viso e rottura del setto nasale. La notizia ci viene riferita da Germinal, settimanale socialista, nel febbraio del 1922, anno ruggente delle diatribe tra “rossi” e “neri”, senza assegnare il “colore” del malcapitato. Una lacuna facilmente colmabile se pensiamo che è riferita dal foglio del Sol dell’Avvenire. E questo solo per dovere di cronaca.

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