Una riminese: "Vi racconto come ho vissuto in una tribù masai"

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«Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo, tra gli uomini della preistoria. Mi trovavo in mezzo alla natura, in questo villaggio di otto capanne di fango. Mi sono lavata i denti con i bastoncini e i capelli nell’acqua del fiume o dello stagno. Ma non vedo l’ora di tornarci». Denise Martinini ha 30 anni, vive a Riccione. D’estate fa la bagnina di salvataggio, e d’inverno viaggia. Ma non sono vacanze. «Avventure, esperienze di vita», le definisce lei. «I soldi vanno e vengono, non mi importa. Preferisco vivere e fare quello che mi rende felice». E tra i luoghi in cui Denise ha trovato la felicità c’è anche un villaggio Masai, in Tanzania, in cui la scorsa primavera ha vissuto per due settimane. Un villaggio raggiunto in bicicletta, dopo aver macinato 1.500 chilometri, «dal Kilimangiaro a Zanzibar - racconta - nell’arco di due mesi, dal 13 febbraio al 13 aprile, dormendo nelle tende piantate nei giardini delle case che io e il mio compagno di viaggio incontravamo lungo la strada. In Italia sarebbe impensabile».

Denise, come ha fatto a finire nel villaggio masai? Era sola?

«Ci sono andata perché a Zanzibar ho conosciuto due ragazzi di questa tribù masai. Ho fatto amicizia con loro e a un certo punto mi hanno proposto di venire a conoscere la gente del loro villaggio. Io ho accettato, senza pensarci troppo. E sì, ci sono andata sola. Alessandro Dalla Libera, il ragazzo con cui ho fatto il viaggio in bicicletta, non è venuto dai masai».

Non ha avuto paura?

«Paura? No, mai. Ho molta più paura quando sono qui in Italia. Per quanto riguarda il viaggio in bici, va tenuto conto che ho sempre viaggiato insieme a un ragazzo, non so se sarebbe stato diverso se fossi stata sola. Dai masai invece assolutamente no. Sono delle persone estremamente accoglienti, non mi sono mai sentita in pericolo».

Come l’hanno accolta quando l’hanno vista arrivare?

«Alcuni di loro non avevano mai visto un bianco, soprattutto i bambini, che erano super curiosi e quasi tutte le notti si infilavano nella mia tenda per dormire con me. Io la piantavo fuori dalle capanne, e loro, che una tenda da campeggio non l’avevano mai vista, volevano vedere cos’era e provare a dormirci dentro. Erano tutti attratti dalla novità e dalla diversità che io rappresentavo per loro. Mi hanno accolta a braccia aperte, coinvolgendomi in tutti gli aspetti della loro vita. L’unico problema era la comunicazione... »

Come vi parlavate?

«Io a un certo punto ho iniziato a parlare direttamente in italiano e a gesti. Loro invece mi rispondevano nella loro lingua, il maa, e non facevano nemmeno i gesti. In qualche modo alla fine riuscivamo a capirci. Poi nel frattempo ho imparato un po’ di swahili, la lingua della Tanzania, che parlavo con i ragazzi che avevo conosciuto a Zanzibar. Loro facevano da interpreti con il villaggio e la sera mi davano lezioni. Bellissimo, a pensarci mi sembra ancora di sentire i grilli e vedere il cielo stellato».

Come vivono i masai?

«Per rispondere parto da un detto: “Dio ha regalato l’orologio agli svizzeri e il tempo agli africani”. Io con loro mi sono sentita come se il tempo non esistesse, ho sperimentato una serenità unica, nonostante la loro vita non sia facile e le condizioni dure. La loro giornata parte con la colazione. La donna di casa si alza e va a mungere la mucca, poi fa bollire il latte e fa una bevanda super zuccherata e buonissima che si chiama “chai”. Loro usano chili e chili di zucchero. Una volta ho preparato loro il caffè e non riuscivano a berlo: non sono abituati alle cose amare. Dopo colazione ci si divide i compiti, ognuno ha i suoi. A noi può sembrare incredibile, ma hanno un sacco di regole. A una certa ora, mai la stessa, le donne preparano il pranzo, ognuna nella sua capanna, ma il cibo si condivide: chi ne ha di più lo dà agli altri, e lo stesso avviene per cena. Si fa molta vita di comunità, e molto gira intorno alle mucche: praticamente sono la loro banca».

Hanno contatti con il mondo esterno?

«Sì, soprattutto gli uomini, che vanno a lavorare nelle grandi città per fare un po’ di soldi. Ma con il fatto che sono guerrieri, capita spesso che vadano a fare le guardie nei resort nella savana intorno ai bungalow dove dormono i turisti. Quindi sì, sanno che nel resto del mondo si vive in maniera diversa dalla loro. E se hanno bisogno di qualcosa che nel villaggio non c’è vanno nei paesi vicini».

Cosa le è rimasto?

«Semplicità, leggerezza e coraggio. Perché la vita che fanno non è facile, e averli visti dà il coraggio anche a me di fare quello che voglio. È un altro mondo, che mi piacerebbe raccontare in un libro e fare conoscere organizzando viaggi per permettere ad altri di sperimentare quello che ho provato io. Sono sicura che anche i Masai sarebbero felici».

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