Uccise la moglie ucraina, figli assenti a causa della guerra

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Il 26 ottobre 2020 Giovanni Laguardia uccise la moglie Vera Mudra con 18 martellate, tante quanti gli anni trascorsi insieme, come lui stesso dichiarò alla cugina della consorte poco dopo aver commesso l’omicidio. Ieri pomeriggio, la Corte d’assise del tribunale di Rimini lo ha condannato a 23 anni di carcere, non riconoscendo la premeditazione e concedendo all’uxoricida, oggi 70enne, le attenuanti generiche.

Una sentenza che per la difesa, sostenuta dagli avvocati Andrea Mandolesi e Linda Andreani, rappresenta «un grande successo» e che lascia invece «tra il perplesso e lo stupito» il legale di parte civile, Cristiano Basile, che ha rappresentato in processo una nipote e i due figli di Vera, questi ultimi impossibilitati a prendere parte all’udienza a causa degli eventi bellici in corso in Ucraina, Paese d’origine della donna uccisa l’ottobre di un anno e mezzo fa.

Un omicidio consumato nel letto coniugale, dove Vera si era coricata dopo una giornata agitata da diverbi e litigate con il marito, da cui la donna aveva deciso di separarsi. Vita spezzata a colpi di martello, per cui il pubblico ministero aveva chiesto 24 anni di carcere, mentre la parte civile l’ergastolo.

«Non mi stupisce tanto il dispositivo della sentenza - chiarisce l’avvocato Basile - quanto la domanda del pubblico ministero». Lo stupore del legale che nel processo ha rappresentato le istanze della famiglia della donna assassinata, in particolare, è rivolto alla richiesta delle attenuanti generiche, poiché, tra i tanti aspetti esaminati, «non c’è mai stata da parte di Laguardia nemmeno una vera confessione: ha raccontato quanto avvenuto in un colloquio a cui non era presente il suo legale e ha chiamato i soccorsi, ma poi, in aula, non ha mia proferito parola in tal senso». Ragion per cui anche un pentimento non sarebbe da prendere in considerazione. «Il foglietto che ha letto oggi (ieri, ndr)? Quello - sostiene - non equivale a un pentimento». Anche l’esclusione della premeditazione lascia un certo sgomento. «Il pm ha dichiarato di non possedere una prova certa di quando Laguardia abbia maturato il proposito omicida. In assenza di certezza, la premeditazione è stata esclusa. Eppure, questo non è stato un omicidio commesso in un impeto d’ira. Ha atteso che lei andasse a letto, che fosse indifesa».

Un disturbo di personalità

Al contrario, la difesa, pur non chiedendo l’assoluzione e attribuendo l’omicidio all’assistito, definito «un uomo d’altri tempi che ha vissuto una vita di lavoro e sacrifici», ha ipotizzato una «carenza nella valutazione psicologica svolta dal perito».

Per la difesa, sussisterebbero infatti le condizioni per una «riduzione dell’imputabilità di Laguardia, che non si può completamente escludere che soffra di disturbi di personalità, tali da aver ridotto la sua capacità di intendere l’omicidio». A quell’uomo solitamente mite e dedito al lavoro, quella sera, citando le parole del 70enne, gli si sarebbe «alzato il cervello» per poi mettere fine alla vita della moglie. Proprio la parziale esclusione di imputabilità, in caso di ricorso, potrebbe essere fatta valere in Appello.

Per leggere le motivazioni della sentenza bisognerà aspettare invece ancora 30 giorni.

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