Tre artisti nella Cesena del 600: Pulini e il lavoro di una vita

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Chi può dirsi artista? Come si legge nel vocabolario Treccani «chi ha fine senso dell’arte ed è aperto al sentimento del bello».

Il cesenate Massimo Pulini (1958) rientra nella schiera; non soltanto perché lui stesso dipinge, perché ne insegna tecniche e storia, perché è studioso e ricercatore. Sono tutte queste caratteristiche insieme che, giorno dopo giorno, l’hanno portato alla creazione di un’opera che riassume la sua storia nell’arte degli ultimi 40 anni. L’opera in questione è l’elegante volume Tre artisti nella Cesena del Seicento. Razzani, Serra, Savolini (Medusa, 2021), 300 pagine e 370 bellissime immagini, uscita da pochi giorni. L’autore l'ha presentadomenica al Palazzo del Ridotto a Cesena insieme alla riedizione aggiornata della guida del 1964 dello storico dell’arte Francesco Arcangeli, relativa ai dipinti della chiesa cesenate di San Domenico. Pulini si ricollega idealmente alla lontana ricerca di Arcangeli, che considerava la pittura del secondo Seicento a Cesena come la più potente e geniale espressa in regione, per andare oltre e tessere un’altra storia che aggiunge e approfondisce la vicenda di quattro secoli fa.

Eravamo in pieno lockdown Pulini, nel marzo 2020, quando ci parlò di un libro sui tre maggiori artisti cesenati seicenteschi a cui stava lavorando. Come si è mosso nella lunga esplorazione?

«Ho tentato di raccogliere un contesto, attorno a quelle opere che rimangono testimonianza di quel periodo, attraverso l’identificazione dello stile, cosa che mi ha permesso anche di ritrovare – ora in un passaggio in asta, ora ricevendo immagini da commentare, ora imbattendomi personalmente – opere di questi pittori. Le pinacoteche del mondo sono piene di quadri italiani, e talvolta ci si imbatte in cose anche romagnole e cesenati. In 40 anni ho messo da parte materiale immaginando una pubblicazione che desse l’idea di una specie di paesaggio umano e artistico attorno alla città».

Dice di avere cominciato 40 anni fa, ancora studente d’arte.

«Sì, ero all’Accademia come pittore, però ho sempre avuto un rapporto con la storia e con la memoria di questa disciplina che ho sempre tenuto a fianco, anche durante il mio lavoro pittorico. Già prima di terminare l’Accademia è avvenuta una specie di presa di consapevolezza, quasi una conversione di pensiero».

Cosa le ha suggerito tale “conversione”?

«È stato l’incontro con due quadri di Guido Cagnacci (a pagina 59 del volume), due grandi opere alte più di 4,5 metri conservate nella Pinacoteca di Forlì. Quando ti trovi davanti a quadri del genere, ti senti osservato dal quadro stesso. Due opere pervase da un’aria di ultimo momento esistenziale, per me una folgorazione. Tale da indurmi anche a capire, in quello stesso momento in cui venivo affascinato, che erano quadri della mia terra dove erano stati realizzati; e che dunque era forse possibile studiare da vicino figure ancora poco note. Questo avveniva nel 1980-81, proprio 40 anni fa».

Si può dire che nel giovane artista è emerso il sentimento del critico d’arte?

«Sentimento è la parola chiave, quella che mi ha accompagnato per tutta la mia vita. Credo che l’arte sia un’esperienza sentimentale sia per chi la fa, sia per chi la vede. Sapere che questa terra aveva ancora, anche in maniera segreta, presenze da approfondire, mi ha spinto a studiarle. Ho iniziato tra Cesena e Rimini, ho cominciato a occuparmi di Centino, Cagnacci, Razzani, Serra e Savolini insieme, come fossero parte di una stessa civiltà artistica, e lo erano. Erano presenze che marcavano il territorio e che hanno dato un carattere al Seicento pittorico di questo lembo di Romagna».

Può raccontarci i tre artisti cesenati con estrema sintesi?

«Gian Battista Razzani (1603-1666) è un tardo manierista legato ancora alla cultura cinquecentesca; Cristoforo Serra (1600-1689), che attraversò quasi tutto il secolo, non si considerava pittore mercenario perché era un capitano di truppe, però era una persona geniale come si ammira nella sua “Ultima cena” ai Cappuccini di Cesena, e ha svolto un ruolo quasi socratico verso Savolini e altri pittori. Più che una bottega aveva una specie di cenacolo, era figura di grande carisma. Cristoforo Savolini (1639-1677), che fu allievo di Serra, era il più naturalmente dotato, il più talentuoso, emblematica è la “Madonna col Bambino” che ho voluto in copertina, con il bambino che fa il segno del 3 con le dita in un rimando alla Trinità. Ma morì a 37 anni per uno stupido incidente a cavallo».

Quali nuovi elementi emergono nel suo libro?

«Di Razzani, di cui si è detto che ebbe una formazione milanese, individuo nella “festa del colore” un referente stilistico in Tommaso Pombioli, provinciale di Crema, figura chiave di un periodo tra Manierismo e ultima stagione dei “pittori della peste”. Anche Serra si forma fuori ma a Roma, con il Guercino, il pittore più moderno in quella Roma del 1621-22. L’entourage esteso di Guercino ha creato un largo raggio di influenza. L’intonazione guercinesca di Cesena, tra il 1620 e la fine del secolo, attraverso le personalità di Serra e Savolini si caratterizza in un modo unico! Nel libro riporto anche una sessantina di nuove attribuzioni divise tra i tre pittori».

La presentazione del libro ha fatto da ouverture alla prossima pinacoteca nell’ex Palazzo Roir.

«Quando saranno unite le opere della pinacoteca comunale a quella della Fondazione Crc credo diventerà una pinacoteca di tutto rispetto, che rilancerà spero anche una nuova percezione dell’arte cesenate, del Seicento, e non solo».

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