Teatro, Chiara Lagani pubblica il testo di "La mia battaglia"

Archivio

Nel febbraio del 2018 debuttava allo Spazio Tondelli di Riccione La mia battaglia, spettacolo che il protagonista, Elio Germano, ha scritto insieme a Chiara Lagani, attrice, drammaturga e fondatrice della compagnia Fanny & Alexander.

Che si trattasse in realtà di un lavoro che andava ben oltre lo spettacolo teatrale era quasi impossibile intuirlo (forse solo traducendo il titolo in tedesco sarebbe affiorato qualche sospetto), e nel momento in cui lo spettatore si rendeva conto di far parte di un esperimento sociale sul teatro e sul senso di comunità la trappola era già scattata. Perché la riflessione congiunta di Lagani e Germano – basata sull’obbiettivo ambizioso di realizzare un meccanismo teatrale che facesse sentire il pubblico a poco a poco complice di un pensiero che di solito, invece, viene additato come il male assoluto – era orientata sul “Mein Kampf” (“La mia battaglia”, appunto) di Hitler, studiato, manipolato, reso più discorsivo possibile, mescolato con immagini e espressioni diverse, in modo che il discorso non rivelasse immediatamente la sua fonte testuale, ma solo in conclusione.

Ora Einaudi pubblica il testo dello spettacolo in un libretto arricchito da alcune foto di scena, da varie (e fondamentali) descrizioni delle reazioni del pubblico e da un’intervista di Rodolfo Sacchettini ai due autori. Del testo e dello spettacolo parliamo con Chiara Lagani.

Partiamo dalla genesi del testo e dal meccanismo a esso sotteso.

«Tutto inizia nel 2017, quando Elio, dopo aver visto lo spettacolo di Fanny & Alexander “Him” e dopo aver seguito il nostro progetto sui “Discorsi pubblici” (in particolare “Discorso grigio”, dedicato alla politica), mi chiede di aiutarlo in un’impresa molto particolare. Voleva realizzare un testo teatrale, un monologo, che a partire da una situazione apparentemente leggera (un comico che intrattiene il suo pubblico su vari argomenti d’attualità) si trasformasse a poco a poco in una sorta di trappola del consenso, rendendo impossibile a chi ascoltava un vero e proprio esercizio del giudizio critico, e impedendo fondamentalmente di riconoscere, almeno in principio, la vera figura che aleggiava dietro quel discorso, a ogni minuto più reazionario e orribile. Elio pensava, in particolare, a Hitler. Immaginava uno spettacolo respingente, duro, che si concludesse con qualcosa di estremamente scioccante, come un discorso sulla necessità dell’individuo di armarsi per difendere l’idea di stato sovrano, la purezza della razza italiana, la nazionalizzazione delle imprese, l’importanza delle competenze, l’apologia della fertilità femminile e così via».

Ed è così che si arriva al “Mein Kampf”.

«Se leggi, come abbiamo fatto noi, il “Mein Kampf”, soprattutto nella parte iniziale, senza sapere che l’ha scritto Hitler, arrivi a essere quasi d’accordo con certe cose che dice – ad esempio sulla cultura e l’educazione che non dovrebbero conoscere disparità tra ceti o classi sociali –, pensi “certo”, sono principi assolutamente condivisibili. Poi tutto degenera in maniera violenta e inavvertitamente ti trovi al massimo dell’aberrazione. Ma questo serve anche a rendersi conto come certi discorsi politici di oggi siano pieni di insidie, discorsi che portano, con un tranello dietro l’altro, a conseguenze estreme, a un effetto valanga. Noi volevamo proprio questo, cioè che il pubblico, da una solidarietà iniziale, dal divertimento e dalla condivisione, si trovasse, attraverso zone sempre più grigie, di imbarazzo, di disagio, totalmente disorientato».

Lo spettacolo poteva essere interpretato da un altro attore?

«Molto difficile. Oltre a essere bravissimo, Elio è un attore molto conosciuto, che ha un suo pubblico compatto che va a teatro a vederlo perché l’ha visto al cinema, ma anche perché è a conoscenza di sue determinate posizioni politiche, del suo impegno nel sociale. Chi va a vederlo si aspetta un certo tipo di discorso, per cui abbiamo giocato su questo senso delle aspettative in maniera massiccia. E quando alla fine il discorso è ormai degenerato, il pubblico è spiazzato, tradito, si rende conto che fino a un secondo prima applaudiva ed era d’accordo con Elio, si chiede: “Ma quand’è successo che sia arrivato ad applaudire pochi secondi prima che calasse una svastica in scena?”. Ecco dunque che il male può diventare a un certo punto uno specchio strano, incubotico, anche della nostra assenza di giudizio critico, dei meccanismi manipolatori che ha la retorica e che ti porta inavvertitamente a tradire determinati tuoi principi. Senza che tu te ne accorga sei scivolato dalla parte del male. E infatti, al culmine del monologo, gli spettatori insorgevano contro Elio, gli chiedevano di smettere, talvolta discutevano tra loro, si zittivano a vicenda, fischiavano e applaudivano scompostamente. Al termine dello spettacolo, poi, non se ne andavano, restavano in sala a discutere anche per ore sull’idea di manipolazione, sul perché le figure carismatiche possano essere così soggioganti e sugli inquietanti riverberi con il nostro presente».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui