Talento, leadership e ironia. A Ravenna due maestri, Sacchi e Muti

Ravenna

RAVENNA. Due maestri. Un teatro. Da una parte Riccardo Muti e le sue partiture, dall’altro Arrigo Sacchi e le sue partite. Icone diverse di un’ Italia che il mondo ammira.
E’ un dialogo insolito e piacevole quello che scalda il pubblico - “distanziato” ma partecipe - di un Alighieri tutto per loro. Una serata di Sant’Apollinare che scorre via veloce tra aneddoti e battute, con un velo di nostalgia che non scade mai in passatismo. Anzi.
A dirigere il dialogo, senza schemi (ma su questo Sacchi, almeno ieri sera, non ha protestato) c’è uno dei più importanti giornalisti culturali italiani: Armando Torno, bravissimo nel sottrarsi poco a poco dal confronto diretto tra due geni diversi, ma in un certo senso affini.

Leadership e gruppo
Appena due convenevoli di numero e poi si parte; con Sacchi che introduce il primo tema, quello della leadership.
«Nel calcio - dice - te la devi meritare. Non esiste leadership senza autorevolezza e non esiste autorevolezza senza conoscenza. Poi è necessario essere equi con tutti, con quelli bravi e quelli meno bravi, perché ognuno ha la sua personalità».
Ma nel calcio, come in un’orchestra, leadership è anche gestione del singolo e del gruppo. E gestire i “primi violini” del Milan non fu facile. «Un giorno Ruud Gullit ebbe un comportamento poco professionale - ricorda a proposito Sacchi - Ero deluso, ma pur di avere una reazione positiva da lui arrivai anche ad offenderlo. Alla fine reagì. E sapete perché? Perché era una persona intelligente».
E se davanti si ha un’orchestra? A rispondere, questa volta, tocca a Muti: «Se undici persone sono una squadra, cento persone sono praticamente un popolo! Ma la sfida è proprio quella: coinvolgerli, convogliarli verso un’unica idea interpretativa. E sono d’accordo con Arrigo - aggiunge Muti - quando dice che l’autorevolezza nasce dal sapere e dall’etica del lavoro. Anzi, alla fine sono arrivato alla conclusione che chi capisce come funziona un’orchestra forse sa anche come funziona un’ intera società».
«Nella mia “orchestra” - dice Sacchi - volevo solo persone con valori importanti, non individualisti. Gente modesta, motivata e intelligente. Prima veniva la squadra, poi il singolo».

Genio e collettivo
«E se arriva un grande talento? Tu come lo inserisci nella squadra?» Chiede Muti, facendo la premessa di non essere mai stato un esperto di calcio.
«Non ho dubbi: prima viene la squadra - taglia corto Sacchi - poi i singoli».
Metà teatro sembra apprezzare. L’altra metà ha visto giocare Baggio e Van Basten. E resta un po’ più fredda. Ma ad Arrigo si perdona tutto. E tra chi apprezza c’è sicuramente lo stesso Muti, che ricorda la lezione del grande maestro George Szell: «rese grande l’allora semi sconosciuta orchestra di Cleveland riuscendo a prendere il meglio da ogni singolo».
Ma se il calcio è anche specchio della società, Sacchi ricorda il suo Milan come esempio di un’Italia che seppe superare diffidenze e luoghi comuni. «Prima di me, se ci pensate, solo due parole nel mondo del calcio erano italiane: “libero” e “catenaccio”. Tutti e due concetti di difesa. Poi cambiò tutto. Perché - aggiunge con motivato orgoglio - noi riuscimmo non solo a vincere, ma a vincere con lo spettacolo, andando persino oltre i nostri sogni. E se 20 anni dopo aver smesso di allenare la gente ancora mi ferma per strada, non è solo per le coppe vinte ma per quel gioco spettacolare». Muti applaude e propone un’originale analogia tra due mondi lontani, eppur entrambi spesso segnati dalla ricerca di una scorciatoia per un successo effimero. La ricerca, per dirla alla Sacchi, «del gol senza gioco».
«Il “gol”, in quel senso lì, esiste eccome anche da noi - ammette Muti - Solo che da noi i “gol” si chiamano “acuti” e io non li ho mai amati. Una volta un noto tenore mi chiese se poteva eseguirne uno alla fine di un’opera, ma mi opposi. Nulla contro di lui, era solo rispetto verso l’autore. Così per “punirmi”, quando ci salutammo, ne fece uno nel corridoio del teatro. Ma San Gennaro che tutto vede, lo punì; e diciamo che gli fece sbagliare un rigore… insomma steccò!. E io a quel punto gli dissi: “ora capisci perché non ti ho fatto fare l’acuto”»
E così tra un ricordo di Sacchi su Baresi e uno di Muti su un terzino da romanzo del Molfetta, «detto misteriosamente “Bagdad”», si arriva alla fine, con il giornalista Torno che chiede a entrambi: ma si gioca di più con la testa o con i piedi?
Sacchi, anche qui, non ha dubbi: «Con la testa». E ricorda Carlo Ancelotti da Reggiolo: «Aveva un ginocchio invalido al 20%, ma che intelligenza…».
Anche Muti non ha dubbi, ma avendo un repertorio diverso cita un altro emiliano, Arturo Toscanini: «Il braccio , diceva, è solo l’estensione della mente».
Prima del commiato due perle. La prima di Sacchi: «Forse con le mie idee ho anche un po’ esagerato, è vero, ma nella vita senza esagerare non si arriva da nessuna parte».
L’ultima perla è invece di Muti. Che in una serata di geni italiani, per quanto diversi e lontani, ne ricorda un terzo: Raffaello. E traduce dal latino l’epigrafe scritta da Pietro Bembo scolpita nel Pantheon. Un modo indiretto per ricordare a tutti le virtù di un «Paese inconsapevole della sua grandezza e che spesso fatica ad apprezzarsi e a unirsi». «Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire».
Non chiamateli acuti, i due maestri non apprezzerebbero, ma fino alla fine scaldano il cuore.

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