Strage di Bologna, "portai via i morti con il mio autobus"

Imola

IMOLA. «Tutti noi quel giorno abbiamo fatto quello che si poteva fare e l’abbiamo fatto in tanti». Agide Melloni, 70enne nativo di Molinella ma residente a Imola dal lontano 1981, ha comprensibilmente la voce incrinata dall’emozione quando trova le parole perfette per sintetizzare il suo messaggio. Suo e di tutte quelle decine e decine di soccorritori che, il sabato 2 agosto del 1980, alla Stazione dei treni di Bologna non si tirarono indietro di fronte all’urgenza, ovvero dare una mano ad altri esseri umani sulla scena di quello che, solo dopo tante ore, avrebbero imparato essere stato un attentato. Per Melloni, allora dipendente dell’Atc, e per tante altre persone normali, la reazione fu altrettanto normale e istintiva: aiutare. Il ricordo di quelle ore è fondamentale, per non dimenticare.

Cosa vide di preciso?
«Di tutto. Le macerie che arrivavano alla Galleria sulla parte più lontana della strada, gente che vagava, ognuna con i propri drammi. Chi ferito cercava aiuto, chi gridava il nome di famigliari o amici che non trovava più, chi cercava rifugio sugli Autobus fermi nel piazzale temendo un’altra esplosione. Erano passati 20’ dall’esplosione (avvenne alle 10.25, ndr), alcuni bus avevano già portato dei feriti in Ospedale, vi ricordo che allora non esistevano il 118 o il 112, e allora io e un vigile urbano decidemmo che bisognava dare una mano. Come? Lasciando ambulanze e soccorsi ai feriti e prendendoci cura di portare via i corpi delle persone morte».

Lei guidava gli autobus e proprio quello utilizzaste, giusto?
«Si, tagliammo con una sega i corrimani delle porte per consentire l’ingresso delle barelle e io mi misi alla guida dell’autobus. Quando era abbastanza pieno, ma sempre stando ben attenti che i cadaveri non fossero mai sovrapposti come forma di rispetto, partivo verso la camera mortuaria di via Irnerio. Era un tragitto veloce, di pochi minuti grazie pure alla scorta delle forze dell’ordine, e non so quante volte l’ho compiuto. Quando la camera mortuaria fu piena, mi cominciai ad indirizzare verso l’Ospedale Malpighi e così fino alle 3.30 di mattina, quando il piazzale era stato liberato dalle macerie e anche l’ultimo corpo estratto. Non ho mai sentito la fatica o il caldo, e c’erano 40° quel sabato, l’adrenalina mi ha spinto ad andare oltre il limite, anche professionale, perchè tornando in questi posti, con calma e da solo pochi giorni dopo, mi sono reso conto di aver fatto manovre impensabili, specie negli spazi ristretti del Malpighi».

L'intera intervista nel Corriere Romagna in edicola

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui