Il futuro del Rimini e i consigli di Giorgio Grassi: “Se qualcuno mi vuole chiamare, sono a disposizione”

Giorgio Grassi, a Rimini siamo passati in pochi anni da “Un altro calcio è possibile”, che era il suo slogan quando prese il club nel 2016, a “Un calcio forse è possibile”, per fotografare la realtà attuale delle cose. Come la mettiamo?

«Malissimo per il calcio in generale, soprattutto per il calcio italiano. Venendo al Rimini, al momento attuale non riuscirei nemmeno a immaginare come ripartire, salvo tornare al nostro schema di base, poco da tanti, schema di cui si impadronì Rbr, partendo da un centinaio di soci in grado di mettere ciascuno mille euro».

Secondo lei è più malato il calcio riminese oppure il calcio italiano?

«Il malato vero è il calcio italiano per come è strutturato: naturalmente il Rimini è stato solo una vittima di questo sistema. A partire dalla famigerata retrocessione a tavolino per il Covid, che non aveva alcun fondamento dal punto di vista sportivo visto che c’erano ancora 14 partite da disputare, e per un pasticciatissimo algoritmo che doveva prevedere, in ogni caso, che noi retrocedessimo. Nelle occasioni in cui ho frequentato la Lega Pro come presidente si discuteva anche di proposte molto semplici per recuperare quel malato che da anni è la Serie C, che tutti gli anni presenta fallimenti a raffica. La Federazione è un monstrum burocratico che non ha nessun interesse a fare il bene della società e a trovare formule efficaci per evitare i fallimenti. Quello che è successo al Rimini ne è la conferma. Nel calcio europeo ci sono quattro Paesi che stanno molto bene, Spagna, Francia, Germania ed Inghilterra, sono tutti i Paesi che condividono un calcio offensivo, nel quale le squadre si danno battaglia senza risparmio e quindi pubblico e televisioni possono vendere facilmente i diritti in tutto mondo. La prima malattia del calcio italiano è la pareggite, io ho sempre sostenuto che in Serie C si potesse sperimentare la soluzione che prevedeva un vinto e un vincitore, la cosa non passò mai perché i grandi capi mi dicevano sempre che è meglio che ci siano due feriti che un morto. A dimostrazione di quanto il calcio italiano sia la speculazione sportiva portata all’estremo. La Serie C poteva sperimentare i cambi volanti, nuove formule per il fuorigioco... invece niente».

C’è un problema specifico nel fare il calcio a Rimini?

«Io credo che un problema di fondo è che non si sia maturato un atteggiamento di benevolenza, un’apertura di credito verso chi vuol provare a fare calcio a Rimini, tutti sono passati attraversi le forche caudine quando andava male, è sempre prevalso uno spirito individualistico portato all’eccesso. Il presidente portava la croce di contestazioni spesso infondate o immotivate. Da Orfeo Bottega in avanti, tutti i presidente hanno perso molti soldi e a volte le aziende. Tutti quelli che sono passati da Rimini ci hanno lasciato le penne, i miei quattro anni sono costati, ma fortunatamente non hanno intaccato l’equilibrio della Grabo, che ora sta vivendo un periodo di grande sviluppo».

Lei in fatto di ripartenze ha una certa esperienza, come la vede questa volta? Che consigli si sente di dare a chi si cimenterà in questa nuova impresa?

«La nostra esperienza in Eccellenza e in Serie D è stata davvero importante. Ricordo che vincendo la partita con l’Imolese con un bellissimo gol di Traini e uno di Guiebre, dopo due anni siamo tornati in Serie C: quella vittoria è stato il momento di maggior esaltazione. Con i professionisti abbiamo pagato lo scotto dell’inesperienza. L’allora sindaco Andrea Gnassi spingeva molto perché facessimo subito la Serie D, ma noi, facendo l’analisi dei costi, con l’onere di fare una squadra subito competitiva, abbiamo preferito ripartire dall’Eccellenza per vincere e mettere le basi per fare un altro salto. Il primo consiglio è: lasciate perdere (e giù risata, ndr). Facendo il serio, posso dire di ricominciare con grandissima umiltà e di scegliere il direttore sportivo giusto, perché quella è la persona più importante. Importante è anche il ruolo di responsabile del settore giovanile, noi all’epoca scegliemmo un grande tecnico come Aldo Righini, che ha ricostruito mirabilmente il vivaio biancorossi. Uno dei miei errori è stato anche quello di non cercare un buon rapporto con Confindustria».

Rivedremo più Giorgio Grassi impegnato nel rilancio del calcio locale?

«Mi sta facendo una domanda difficile. Fino al mio approdo a Rimini ho gestito con grandi soddisfazioni personali e della collettività società dilettantistiche a Riccione e a Misano, però era un impegno umano, nervoso ed economico differente rispetto al Rimini, che è invece un’esperienza totalizzante. Credo che il calcio sia come il supplizio di Tantalo, il supplizio di chi spinge un masso su una collina che poi rotola sempre giù. Nel calcio il masso lo devi sempre spingere, io questa fortuna l’ho avuta, capire da dentro cosa vuol dire avere una società professionistica, ho conosciuto persone importanti come Andrea Agnelli, non ho rimpianti per i soldi che ho perso. Le sensazioni delle vittorie e delle sconfitte le ho già provate, ora sto molto bene qui, nelle mie aziende. Io escluderei un nuovo impegno nel calcio, ma se qualcuno mi vuol chiamare sono sempre a disposizione».

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