Benvenuti nel mondo di Okaka, l’Altafini di Ravenna

Di nuovo 4.995 spettatori. Un numero che ormai è diventato un confine, un limite fisico e simbolico. È la misura esatta di ciò che il Benelli può contenere, ma anche del desiderio crescente che non riesce più a starci dentro. Sembra quasi che il Ravenna stia diventando più grande della sua casa, e questo, in fondo, è uno dei segnali più limpidi del cambiamento. Lo stadio è pieno, compresi i 627 tifosi dell’Ascoli, anch’essi al massimo consentito.

Anche stavolta c’è un premio da consegnare. Joshua Tenkorang, centrocampista dal passo lungo e dalla conclusione rapida, riceve il riconoscimento della Lega Pro come miglior giocatore di settembre. Tenkorang, in quel mese aveva trovato il gol con una naturalezza disarmante.

Le curve si rispondono con rispetto e passione. Quella giallorossa ha preparato una coreografia geometrica, precisa, quasi da artigiani: quattro settori, bandierine alternate, un mosaico vivo. Quando le squadre entrano in campo, lo stadio diventa un corpo unico, un coro che vibra per tre minuti.

La scelta dei capitani sorprende: si attacca subito sotto la propria curva. È un dettaglio, ma nel calcio certi dettagli trascinano. Il Ravenna parte forte, prova a comandare, ma l’Ascoli risponde prestissimo. È una partita di specchi, dove ognuno riflette la volontà dell’altro.

L’Altafini giallorosso

Nella ripresa il copione cambia di poco, ma il peso del tempo comincia a farsi sentire. Le difese tengono, le idee si accorciano, la lucidità cala. Lo 0-0 diventa una possibilità concreta e forse anche giusta. Poi accade qualcosa: Stefano Okaka entra in campo. È un ingresso che non porta solo forza, ma anche magia. L’entusiasmo risorge, come se bastasse un nome a rimettere in moto la speranza. Un affondo, un duello perso per un soffio, ma la sensazione è che qualcosa si muova. Il tempo scorre, il pareggio sembra epilogo pacifico. Ma il calcio non conosce pace. Un cross di Falbo, un colpo di testa di Da Pozzo, il pallone che rimbalza davanti alla linea. Dove c’è Okaka, quasi di spalle: la tocca col tacco. Gol. Lo stadio esplode in una gioia che non è solo esultanza, ma attesa esaudita. Cinquanta anni fa la Juventus si affidava al vecchio José Altafini, l’uomo che entrava e decideva partite e scudetti. Forse è un paragone ardito, ma non sbagliato. Perché certi giocatori non hanno bisogno di tempo per cambiare una storia: gli basta un pallone che gli capiti vicino, e un istinto che non invecchia mai.

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