Il Milan campione d’Europa e Franco Baresi che si alza in piedi per applaudire Natale Bianchedi

Calcio

«Chissà quante volte sarai stato al Bernabeu?». Si faceva serio Natale Bianchedi, per poi rispondere: «Al Bernabeu non lo so, ma al museo del Prado ci sono stato undici volte, quelle sì che le ho contate».

C’era tutto Bianchedi in quella risposta. La risposta di un uomo di altri tempi. Probabilmente uno dei più influenti e importanti uomini di calcio che la nostra terra abbia avuto.

Si è spento a Cesena domenica mattina, da giorni era ricoverato al Bufalini dopo un malore che ne aveva causato una caduta.

Il prossimo 6 luglio avrebbe compiuto 87 anni, gran parte dei quali spesi dietro a una passione che era diventata la sua professione. Prima calciatore semi professionista, poi allenatore delle giovanili a Ravenna, poi tecnico a Bellaria e al Baracca Lugo. Ma la sua dimensione era quella di consulente tecnico, “osservatore” si diceva una volta.

E’ con il Milan di Sacchi che il suo nome comincia a girare per gli stadi di mezzo mondo. Dell’Arrigo di Fusignano diventa l’uomo di fiducia. Insieme vincono tutto. Uno in panchina e l’altro in tribuna a osservare i rivali del Milan e cercarne i punti deboli.

Una simbiosi professionale che si interrompe alla vigilia dei Mondiali del 94.

Bianchedi resta però nell’orbita del Milan e collabora poi anche con Capello e Ancellotti continuando a vincere. Sempre nell’ombra, lontano dai riflettori.

Era un hombre vertical, Natale. Romagnolo ravegnano, schietto, orgoglioso, libertario ai limiti dell’anarchia. Non proprio il carattere ideale per le dinamiche del calcio moderno segnato dall’amichettismo pallonaro e dalle carriere decise nei salotti che contano, dove il merito più che richiesto è tollerato. Da anni fuori dall’ambiente ne rideva. Ovviamente a testa alta. Rivendicava la sua onestà intellettuale come il suo vero patrimonio. Forse incosciente di un altro grande patrimonio che portava con sé: quello di essere stato testimone diretto della storia del calcio italiano.

Non ostentava mai le sue conoscenze e i suoi allori. E quella miniera di aneddoti sulla storia del Milan, della nazionale e del calcio in generale che aveva, la si percepiva quasi per sbaglio, tra una barzelletta e un racconto di vita.

Gli è toccato vivere in tempi in cui l’ignoranza è ostentata come un merito. E lui - che pensava in italiano, ma sentenziava in dialetto - pur senza lauree in tasca contava con orgoglio le volte in cui il calcio gli aveva regalato il privilegio di un Velasquez al Prado e non solo un Van Basten al Bernabeu. Come a sottolineare che girare il mondo lo fanno in tanti, ma è come lo si gira che ti dà la cifra dell’uomo.

Del suo essere globe trotter gli era rimasta la tendenza a chiamare al cellulare a qualunque ora, come se non si fosse mai ripreso da una sorta di fuso orario personale. Un giorno raccontò di aver svegliato Braida alle 3 di notte con una chiamata dal Brasile fatta da una cabina dello stadio del Cruzeiro. «Natale, ma mi svegli alle 3 per parlarmi di un ragazzino di 15 anni?» Rispose Braida da Milano. «Guarda che questo è da prendere stanotte» disse Bianchedi. Parlava di Ronaldo.

Ma a chi gli chiedeva quale fosse la sua più grande soddisfazione professionale, raccontava di quando - alla vigilia della finale di Coppa Campioni al Prater di Vienna - Sacchi lo mandò in Portogallo a spiare per settimane il Benfica. Lui tornò e parlò ai giocatori del loro modo di uscire alti in difesa e consigliò a Rijkaard di provare a inserirsi. Vinse il Milan uno a zero, con gol di Rijkaard che si inserisce. «Quella sera la squadra stava cenando con Berlusconi in hotel dopo la vittoria - raccontò - io arrivai un po’ in ritardo. Ma appena varcai la porta Franco (Baresi ndr) si alzo e cominciò ad applaudirmi. Poi si alzarono tutti e mi fecero una specie di standing ovation».

E tu Natale cosa hai fatto? «Niente, mi sono goduto quell’applauso. Perché credo che i veri uomini di calcio sappiano sempre chi applaudire. E tutto il resto sono solo chiacchiere».

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