Toscano, il Cesena e l’ufficio dove è colpa dell’altro

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Domenico Toscano ha la valigia sul letto pronta per un lungo viaggio, come cantava Julio Iglesias fiero delle sue espadrillas ai piedi. Era il 1976 e difficilmente il buon vecchio Julio pensava alla panchina del Cesena quando cantava con lo stesso occhio languido di uno Shpendi sotto porta o di un De Rose sotto pressing. Sta di fatto che quasi 50 anni dopo, questa hit del mesozoico oggi suona profetica e non a caso si intitola “Se mi lasci non vale”. C’è un allenatore del Cesena che si è goduto mesi di punti, striscioni, vittorie, applausi, cori e un tour di cene da capo di Stato. Eppure l’incontro che definirà il suo futuro non avrà aria di festa, comunque vada a finire.

Dalla B matematica col Pescara, proprietà e dirigenza hanno avuto 50 giorni di tempo per mettere la ceralacca al contratto e annunciare: “Toscano allenerà il Cesena in B”. Non l’hanno mai detto e a questo punto si suppone che non lo pensino. Toscano dal canto suo non è mai stato così al top in categoria. Il risultato è una partita di tennis tra pallettari da fondo campo che dura da settimane, una partita in cui Artico e Toscano aspettano che sia l’altro a dire per primo che sarebbe meglio chiuderla qui.

Il nodo non è mica il valore dell’allenatore, anche perché cosa vuoi contestare a uno che fa 96 punti? Che Pisseri non ha mai segnato? Che Pieraccini non è alto due metri e cinque? Non convincono nemmeno i dubbi sul suo rendimento al piano di sopra. La classifica del girone B ha confermato che Toscano in C è una macchina da guerra, ma non basta a dirci cosa sarà Toscano in B: eppure non sembra questo il vero problema. Il vero problema è che Toscano non è stato scelto da Artico e nel calcio del terzo millennio questo sposta parecchio.

Per decenni il Cesena ha avuto un’area tecnica che era diretta emanazione della proprietà, con Cera e Lucchi che erano una sola cosa con Lugaresi. Cera e Lucchi erano dipendenti del Cesena solo sulla carta: erano gli uomini di campo di un blocco unico, erano la voce della società e della proprietà messi insieme. Da quando il direttore sportivo è diventato un tesserato da acquistare come un portiere o un centravanti, il calcio italiano è diventato quel tipo di mondo dove se un direttore sportivo sceglie l’allenatore, lo difende fino alla morte davanti ai padroni del club, mentre se non l’ha scelto lui, si rischia il tiro al bersaglio appena la classifica piange. Non fu Foschi a scegliere il secondo giro di Bisoli a Cesena e tutti ricordano come andò a finire. Alla Juve non è stato Giuntoli a scegliere Allegri e gli ultimi giorni ci hanno confermato che si rischia la caciara anche ai livelli più alti.

Artico e Toscano sono pronti a mettere in seconda fila il loro orgoglio personale per fare squadra? Tra i mille non detti di queste settimane, si intuisce la risposta: no. E se la risposta resta questa, allora è il momento migliore per chiuderla qui, anche se i 96 punti hanno detto che gli intenditori di calcio a Cesena sono stati loro per acclamazione. Se ci fosse una proprietà forte e presente, avrebbe già chiesto a entrambi che intenzioni hanno e se sono disposti a fare squadra insieme in B, nella buona e nella cattiva classifica. Invece la proprietà del Cesena non c’è: a fine campionato ha l’abitudine di sparire, quando al contrario sarebbe ora che spiegasse che intenzioni ha. Magari gli americani non lo sanno, ma in Italia il calcio è quel tipo di ufficio dove è sempre colpa dell’altro. Non a caso, è lo sport che ci rappresenta meglio.

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