La primavera triste del Cesena che non parla più la lingua del suo pubblico

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La ricorderemo come quella squadra che a un certo punto iniziò a trattarsi male, macerandosi come un toast al sole. Il Cesena sta buttando via un patrimonio e non può lamentarsi con nessuno diverso da sé stesso: in un campionato sono pochi a ricordarsi come hai iniziato, mentre tutti si ricordano come hai finito e in fondo è giusto così.

Una classifica a lungo di gran lusso, il coraggio di affidarsi ai giovani lucidati in C, la voglia di essere propositivi, la scoperta di Klinsmann. Un capitale sepolto dalla malinconia di settimane in cui il Cesena è in difficoltà fisica e soprattutto ha perso la fame. Questa squadra non parla più la lingua della sua gente e non reagisce alle difficoltà. Prendiamo il rosso a Francesconi: il suo secondo giallo è discutibile, ma sono dettagli. L’arbitro può sbagliare, Francesconi espulso era un problema della partita e il Cesena non risolve i problemi, ma li subisce da squadra acerba, difetto francamente terribile alla giornata numero 35 su 38.

Il senso del gol è precipitato e la parabola di Cristian Shpendi è incredibile nella sua evidenza. Era dal 2010 in Serie A che non si vedeva il migliore giocatore dell’andata sparire completamente nel ritorno, ma all’epoca Yuto Nagatomo aveva una giustificazione solida: era stato ceduto all’Inter. Cristian invece è rimasto, è ancora un patrimonio del Cesena e soprattutto è un ragazzo sensibile in difficoltà: ogni suo passo in campo dice che ha bisogno delle persone giuste che gli dicano le parole giuste.

C’è stato tantissimo del manico sereno di chi allena nei 44 punti di una squadra che a lungo ha dato l’idea di essere costruita male, ma guidata come si deve. Ora Mignani ripete che serve giusto una scintilla per ripartire: il problema è che l’addetto alla scintilla dovrebbe essere lui, in questa strana primavera di precari. Direttore sportivo e allenatore da un po’ di tempo lavorano con un’etichetta in cui c’è scritto: “Hanno il contratto, ma...”. Non il massimo per una squadra che doveva sprintare per l’obiettivo finale e invece ha grippato: un clima di instabilità che i giocatori evidentemente hanno assorbito, nell’attesa che la proprietà prenda finalmente voce e dica qualcosa per completare la frase “Hanno il contratto, ma...”.

Nel frattempo, il Cesena sta perdendo la maniglia con il suo pubblico ed è un peccato, dopo i primi 6 mesi pienamente all’altezza. Non parla più la lingua del romagnolo cesenate, quello che quando dice “Shpendi” sfodera una “esse” da onde del mare in tempesta che si infrangono sugli scogli. Il romagnolo sarebbe quella lingua talmente dura e dolce che a volte ti lascia a bocca aperta, come dimostrò Loris Reggiani nel 2010. L’ex pilota forlivese Reggiani per anni è stato una spalla eccellente del telecronista Guido Meda, quando ancora il Motomondiale era su Mediaset. Quindici anni fa a Donington commentarono la prima vittoria in Moto2 del francese Jules Cluzèl e durante la solennità della premiazione, Reggiani disse al microfono: “Tra l’altro Jules Cluzèl è famoso anche per il fatto che se fosse romagnolo si chiamerebbe Giulio Quell’Uccello”. Silenzio per qualche secondo, rumori di sottofondo di un Meda barcollante, paonazzo e in lotta feroce con una risata incontenibile che lievitava, strozzata in un sibilo sottovoce: “C’è poco da dire, il romagnolo Reggiani è un genio”. Domenica col Palermo c’è l’ultima in casa della stagione regolare: nel Cesena è rimasto qualcuno che sa mostrare un colpo di genio, parlando la lingua del suo pubblico?

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