Il Cesena di Verona e l’avvocato difensore di Salvetti e Braga
Prima sensazione su Mignani: un allenatore che non si inventa niente, ma non te la regala mai. Il copyright per la verità è di Franco De Falco quando inquadra tecnici che non si sentono illuminati dalla missione di cambiare il calcio, ma come minimo non fanno danni e non rovinano le squadre. Verona ci ha detto che il Cesena prima decide il piano-partita, poi però non gli basta e lo applica sul serio, segno che il collegamento tra squadra e allenatore ha messo le prime radici. Un nuovo esame ora è digerire in fretta tutto questo: Cesena-Carrarese conta molto più di Verona-Cesena, stappare il campionato con la prima vittoria è sempre un valico delicato, come ci ricorda una memoria storica scolpita da chi ci ha raccontato il Cesena per anni e ora ha cambiato postazione.
Martedì ci ha salutato l’avvocato Riccardo Chiesa, lasciandoci la sua lezione di fondo, ovvero che la vita è un affare troppo serio per non provare a riderci sopra tutti i giorni. Innamorato del Cesena fino all’ultimo respiro, è stato per distacco il migliore opinionista mai visto al fianco di Luciano Poggi nell’appuntamento televisivo del lunedì per raccontare il Cesena. Fu tra i primi ad essere folgorato sulla via di Salvetti, che ribattezzò Romagnolo Salvetti “perché uno così forte che gioca nel Cesena come fai a chiamarlo Emiliano”. All’ombra di Romagnolo Salvetti, la sua specialità restavano i portieri. O meglio: si autoassegnò la carica di supremo intenditore di portieri e verso la fine degli anni 90, esplose la sua infatuazione tecnica per il portiere della Primavera Stefano Braga, infatuazione che il grande calcio non condivise, incurante del malcelato sdegno dell’avvocato, che nella sua arringa difensiva su Braga era solito terminare con un classico: “Mica è colpa di Braga se è circondato da imbecilli”.
Col microfono in mano l’avvocato Chiesa era una garanzia, un polivalente dello sport. È stato una colonna del Panathlon Club Cesena che una ventina d’anni fa accolse come ospite Stefano Mei, oggi presidente della Federazione Italiana di Atletica Leggera. In quella conviviale, Mei si presentò elegantissimo e pure accompagnato da una statuaria fanciulla bionda che al suo passaggio scatenò una specie di ola di sopracciglia nei tavoli per mezza platea, mentre l’altra metà si spaccava le costole dandosi di gomito. Terminata l’intervista di rito, Mei si riaccomodò a sedere al fianco della bionda compagna e il presidente del Panathlon Dionigio Dionigi chiese un saluto al microfono a Chiesa
“Riccardo, cosa vuoi dire al nostro ospite?”.
“Dionigio, hai invitato un grande sportivo, ma è doveroso fare un distinguo”.
“In che senso?”.
“Nel senso che lo l’è Mei, ma lia l’è méi”.
Lui è Mei, ma lei è meglio. Lo disse in dialetto, secondo la teoria di Andrea Camilleri, un altro che sosteneva che ci sono momenti della tua giornata in cui ti serve solo il dialetto, nulla di più.
L’avvocato ha convissuto per anni con la malattia, provando a prenderla in giro ogni volta che poteva. Qualche anno fa il figlio Roberto lo accompagnò in auto all’ospedale per una visita: non si trovava parcheggio e sostò per un attimo nella zona della camera mortuaria. Aprì faticosamente la portiera mentre una signora nello stesso momento usciva dalla camera mortuaria. La signora tenne la porta aperta e si rivolse premurosa a quell’omone che pian piano cercava di uscire dall’auto.
“Tengo aperta la porta? Dovete entrare?”.
L’avvocato alzò lo sguardo, solo allora notò la targhetta “camera mortuaria” e si girò verso la signora.
“Abbia un po’ di pazienza signora, non ho mica tutta questa fretta”.
Smontava a suon di battute i bulloni di chi se la tirava tantissimo e lo riportava sulla terra di Romagna, una terra che ha amato in maniera totale, come la sua squadra di calcio. Ha fatto dell’allegria una forma di resistenza e ogni incontro con lui ci ricordava che il modo più efficace per tirarsi su resta prendersi in giro. Anche perché è inutile nascondere quello che siamo: anche se ci mettiamo d’impegno e giochiamo a fare i professionisti, al massimo facciamo ridere, nulla di più.