Simone Pompignoli, il giovane forlivese che danza in America

FORLì. Dalla Romagna agli Stati Uniti, a passi di danza. Quelli del talentuso Simone Pompignoli che da Forlì, passando per la scuola John Cranko School di Stoccarda, è entrato a far parte della Tulsa Ballet, in Oklahoma, considerata tra le compagnie di danza più importanti del Nord America. Simone fa parte di un gruppo di ventidue ballerini provenienti da otto Paesi diversi da tutto il mondo: una multiculturalità che si nutre di studio, rigore e di un amore viscerale per il balletto.
Il ventunenne forlivese ha cominciato a studiare danza a Forlì quando frequentava le elementari, a quindici anni ha lasciato la Romagna per la Germania e da tre anni vive nella città di Tulsa. La danza, una scelta di vita.
Cosa vuol dire essere un giovane ballerino classico nella società contemporanea?
«Un ballerino nella società di oggi deve essere forte perché sono tanti i pregiudizi al riguardo. Già da piccolino, quando andavo a scuola, alcuni dei miei compagni di classe mi prendevano in giro per il fatto che io facessi danza classica e che non praticassi uno sport da “maschio”. Loro non capivano allora quello che io già sapevo: la danza non è uno sport, la danza è arte. Poi ancora oggi mi capita spesso, quando incontro persone nuove, di trovarle stupite quando dico loro che faccio il ballerino, mi guardano come se fossi un alieno e la frase successiva è quasi sempre “ma no dai, che lavoro fai davvero?”».
Come stai vivendo questi mesi negli Usa, ai tempi del Covid, lontano da casa?
«Grazie a internet riesco a rimanere in contatto con la mia famiglia costantemente. La mia compagnia è stata molto d’aiuto nei confronti di noi ballerini, hanno cercato e creato una soluzione per farci ritornare al lavoro in maniera sicura, hanno fatto modifiche al sistema di areazione aggiungendo filtri per pulire l’aria all’interno dell’edificio, lavoriamo in gruppi di massimo 7 o 8 persone e tutti con la mascherina. In alcuni casi abbiamo lavorato con coreografi collegati da altri parti d’America e dall’Europa, su Zoom».
Quali sono le complessità di questo mestiere?
«Bisogna avere forza d’animo, perché la danza è severa. La fase dell’adolescenza è la più complicata, è il momento della prova del nove. Noi ballerini siamo costantemente davanti ad uno specchio e siamo i più rigorosi giudici di noi stessi. Ogni giorno è una nuova avventura, il nostro corpo cambia e dipende da cosa mangiamo e beviamo, da quante ore abbiamo dormito. Col tempo si impara a conoscere il proprio corpo, ad ascoltarlo a studiarlo. In molte scuola di danza oltre alle materie teoriche si studia anche anatomia».

Sei una giovane promessa della danza classica. Con quale coreografo sogni di lavorare?
«Nella mia carriera sogno di lavorare con coreografi diversi perché ognuno di loro ha un modo differente di interpretare la realtà, c’è chi è più realistico e chi è più surreale e sono affascinato dalle scelte musicali che ogni coreografo opera: c’è chi preferisce fare un pezzo molto frenetico con il contrasto di una musica classica, leggera e ci sono coreografi che fanno l’opposto. Volendo fare dei nomi in particolare ci sono Yury Yanowsky che è l’ex primo ballerino del Boston Ballet, ci ho già lavorato in passato e mi piacerebbe tornare a farlo, e William Forsythe, uno fra i più importanti rappresentanti della coreografia contemporanea».
Quando si compie per te la magia della danza?
«Nell’attimo prima di andare in scena: dopo tanto studio, le prove, la fatica sento in me l’ansia e la felicità insieme. Poi sul palcoscenico sento solo la danza e a un certo punto tutto finisce, alla felicità si unisce come una sensazione di vuoto e un po’ di malinconia».

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