Rimini, il dialetto secondo Elena Bucci al teatro Galli

«Ho imparato il dialetto da donne burbere e straordinarie, da uomini che parlavano poco e quasi se ne vergognavano. Si inchinavano a una nuova libertà che metteva in ombra i loro saperi… Sono fuggita e sono tornata».
È la premessa a uno spettacolo che si offre come una riflessione sulla vitalità profonda del dialetto, dalla vita alla scena: “Terra mater matrigna”, questa sera dalle 21 al Teatro degli Atti (ingresso libero) di e con Elena Bucci con la collaborazione di Nicoletta Fabbri. Il tutto per la rassegna “Lingue di confine” a cura di Fabio Bruschi.
Bucci, cosa rappresenta per lei confrontarsi con il dialetto?
«È una grande occasione per me. Doveva inizialmente trattarsi di una sorta di chiacchierata, ma il testo ha superato i limiti previsti ed è venuto fuori un mondo, che mi ha permesso di ritrovare una folla di volti, di ritratti di personaggi. Sono partita alla mia terra per fare carriera in teatro, sono tornata e ho ritrovato quella cadenza che invitava a studiare poeti che mi hanno fatto ritrovare queste radici. Una volta il nostro mondo era quasi vergognoso di parlare in dialetto. Ora permette di ritrovare cose risentite come importanti, grazie anche a progetti come questo».
Ha dedicato questo spettacolo a Ivano Marescotti «che di questa terra, di questa lingua e della sua poesia è stato un meraviglioso cantore».
«Con lui ho condiviso diversi momenti teatrali che mi hanno permesso di ritrovare un po’ la mia terra. È stata un mistero per entrambi, questa lingua, da attraversare sia con lo studio sia attraverso l’improvvisazione teatrale, come ponendosi idealmente vicino alla gente. Desiderava ancora poter incontrare il pubblico raccontando alla propria maniera, mescolando fatti e parole. ĖÈ stato lui a invitare autori come Raffaello Baldini a scrivere per il teatro ed è stato importante per il dialetto il suo modo di recitare con freschezza e immediatezza. Amava parlare della natura del dialetto, la capacità tramite esso di far ridere e piangere nello stesso tempo».
«La mia “terra mater matrigna” – si legge ancora nella presentazione – mi ha ispirato spettacoli e scritti, a fare spettacoli ovunque… sussurrandomi all’orecchio la sua lingua antica e misteriosa che trasforma la mia voce e il mio corpo».
«Dai nostri grandi poeti s’impara che ci sono cose che vivono solo in dialetto, che dobbiamo ricercare ciò che ci è stato trasmesso come parola di vita, quotidiana. Una cadenza, una musica che sentiamo intensamente nostra. Portando queste parole in scena le si ferma nel tempo. Tutti gli attori dovrebbero frequentare il proprio dialetto, sentire quegli echi che vengono da lontano, per non perderne la ricchezza».
Il 19 maggio a Roma andrà in scena ”Se resistere dipende dal cuore. Ascoltando Amelia Rosselli”. Bucci, come s’impara che questo resìstere di cui scriveva Amelia Rosselli, è quella danza «che conduce al giardino della poesia, che accoglie tutti e del quale si ha sempre nostalgia, anche senza saperlo»?
«I poeti sentono la nostalgia come una cosa molto viva, come uno strumento di conoscenza, per afferrare il senso che sfugge al mondo globalizzato. Nel dialetto questo significa comprendere la propria terra anche capendo il mondo degli altri. Molte più persone sono interessate alla poesia di quanto possiamo immaginare, volte a essa come strumento di libertà, di fuga dall’omologazione. È una battaglia che sentiamo di voler combattere».

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