Michela Marzano arriva a Rimini: «Cedere non è consentire, tacere non è consentire»

Spettacoli

Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa è un titolo bellissimo. È quello del nuovo libro di Michela Marzano, 53enne filosofa e scrittrice che si interroga, e ci interroga, sul significato e sulle mille sfumature del consenso. Sì, perché il volume appena pubblicato da Rizzoli, più che un romanzo, è un rovello: scatena dubbi, pensieri, ricordi, tormenti. Chi lo legge, soprattutto se donna e con qualche esperienza alle spalle, non può non ritrovarcisi dentro, cercando con la protagonista Anna una risposta a quelle domande.

Il romanzo sarà presentato a Rimini dalla sua autrice, in arrivo da Parigi, dove vive e insegna (è ordinaria di Filosofia morale all’Université Paris Descartes), giovedì 19 ottobre alle 21 nella sala Ressi del teatro Galli.

Marzano, lei con questo libro un po’ ci spiazza: ci dice che è un romanzo però poi ci racconta la cronaca del #metoo. Che cos’è dunque?

«(ride) Un romanzo. Che però ibrida i generi. Io ho iniziato a scrivere saggi, poi il genere mi stava stretto, allora sono passata al romanzo puro, ma mi andava stretto pure quello, e quindi pian piano mi sono spinta verso una forma di romanzo ibrido: c’è una storia che poi diventa la storia delle donne e al tempo stesso è un modo di affrontare da un punto di vista più concettuale e riflessivo tutta una serie di temi legati al consenso, alla violenza, alle molestie, a tutte queste cose insieme. Forse perché non c’era un altro modo per provare ad affrontare questo tema, avevo bisogno di una voce narrante, e finché non è venuta a bussare Anna, la giornalista protagonista, con la sua storia e la sua tonalità, non mi sono sentita di affrontare le mille sfumature del consenso».

Consenso è una parola che ricorre di frequente, eppure è anche la più difficile da comprendere, la più sfumata. Insomma, si è andata a mettere in un bel ginepraio.

«Mi sono andata a mettere in un ginepraio ma in maniera consenziente, mi sono resa conto che era l’unico modo per provare a raccontare la storia di tutte le donne, perché a un certo punto tutte ci siamo sentite non rispettate, tutte ci siamo vergognate, tutte ci siamo sentite in colpa e abbiamo immaginato di non avere il diritto di poterci chiamare vittime, perché le vittime erano sistematicamente le altre».

L’idea che se non c’è violenza fisica allora non è abuso è piuttosto ricorrente. Occorre lo stupro “giusto”, la vittima “giusta”...

«Oggi quasi tutti riconoscono la violenza, ma si tende comunque a mettere molta distanza tra le proprie esperienze e la molestia, a dire “ma gli stupratori sono gli altri”, “ma io non sono una vittima”. E anche la vittima “giusta” dello stupro “giusto” a volte non è abbastanza, come è successo a Palermo e a Caivano, dove si è detto: devi stare attenta perché sennò è anche colpa tua».

Spesso la violenza accade dove c’è una disparità di potere.

«La storia è piena di vittime nei luoghi protetti, a scuola, all’università, a casa, con il capoufficio, il maestro... tutti quelli che pensano di agire in maniera impunita. Come quel preside in Sicilia che chiamava in presidenza le ragazzine con una scusa e le molestava. Si pensa che sia normale abusare del proprio potere, della propria posizione, ci si sente impuniti, e dall’altra parte si vive con vergogna il fatto di non essere riuscite a dire in maniera sufficientemente assertiva “no”. Ma cedere non è consentire, tacere non è consentire».

Ha dichiarato che non si tratta di un libro autobiografico, però si fa fatica a crederle. Come fa a conoscere così bene tutte le domande e i pensieri di Anna se non sono stati anche i suoi?

«In parte sì, lo sono stati, però questo è il processo di immedesimazione nel personaggio di cui mi faccio strumento, perché poi diventa la voce narrante. Quando ho scritto L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) ho parlato in prima persona di una mamma che perde la figlia adottiva e sono dovuta diventare lei pur non essendo madre. Io dovevo assolutamente diventare Anna perché altrimenti la sua storia non l’avrei raccontata. Questo mi ha creato anche dei problemi: mi sono così tanto immedesimata – perché libro è stato molto doloroso da scrivere – che l’ho dovuto tante volte interrompere e poi riprendere».

«Però – aggiunge – il punto di partenza è in parte autobiografico, lì dove racconto che Anna è stata molestata dal suo insegnante a 11 anni. Avevo bisogno di un punto di partenza vero».

Ricorre nella protagonista l’idea di poter esistere solo nello sguardo maschile: «Mi ricordo di avere un corpo perché lui mi guarda». È un problema piuttosto diffuso tra noi donne. Come ci siamo arrivate? E come se ne esce?

«È tipico della nostra generazione, perché siamo cresciute con l’illusione che ormai la parità fosse dietro l’angolo per poi renderci conto che continuavamo a essere trasparenti, e quindi andiamo alla ricerca disperata dell’approvazione. Confondendo l’importanza con una semplice voglia sessuale, che in realtà ce la toglie tutta l’importanza. Come fare a uscirne? Dandosi valore da sole! Avendo consapevolezza del nostro valore indipendentemente dal riconoscimento altrui, ma è difficile se non ci viene insegnato sin da piccole. C’è bisogno che i padri e le madri ci guardino comunicandoci quell’importanza. Tutta la responsabilità è sulle nostre spalle».

Nel libro ricorrono episodi e nomi noti, come quelli di Catherine Millet e Catherine Deneuve, che in Francia firmarono l’appello contro il #metoo. Qual è il confine tra libertà di esprimersi con il proprio corpo e la violenza subita? Si può essere femministe e fare un uso libero della sessualità?

«Ma certo! Certo che si può se si ha la possibilità di scegliere davvero. Per me il problema di certe figure francesi molto privilegiate è che, partendo da certi privilegi, non si sono rese conto delle condizioni delle donne che non potevano scegliere. Mai perdere di vista le condizioni di partenza. La libertà è sempre incarnata, non è mai assoluta, e tante volte è condizionata dalla situazione socioeconomica, dalla vita vissuta, dalle mamme e dalle nonne, e quindi cancellare tutto questo, immaginare che siamo menti astratte, disincarnate, significa non prendere in considerazione la reale libertà con cui hanno a che fare le donne. Deneuve e le altre ribadivano il diritto a essere molestate, benissimo, ma il #metoo lo stanno scrivendo le donne che non hanno questa libertà».

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