Luigi Ghirri: a Santarcangelo la proiezione del doc di Parisini

Spettacoli

Parole e immagini, voce e silenzi, l’uomo nel pubblico e in privato, c’è il mondo di uno dei maggiori e influenti fotografi italiani del Novecento nel docufilm “Infinito. L’universo di Luigi Ghirri” (73’), in proiezione questa sera alle 21 al Supercinema di Santarcangelo, presenti il regista Matteo Parisini e le figlie dell’artista Ilaria e Adele Ghirri. Con pennellate, una accanto l’altra, il regista amalgama materiali diversi: gli scritti di Ghirri, da cui parte tutto il lavoro, le fotografie e i filmati, le interviste-testimonianza di chi gli è stato vicino, dai familiari agli amici, agli artisti con cui ha collaborato, i video che lo ritraggono al lavoro e il paesaggio che gli apparteneva e che tanta parte ha avuto nei suoi lavori. A prestargli la voce è Stefano Accorsi. Il documentario ripercorre le tappe cruciali della vita del fotografo, nato a Scandiano nel 1943, e scomparso prematuramente nel 1992, 30 anni fa, e compie un viaggio-ricerca nei luoghi della provincia, vissuti, amati, fotografati proposti quali tessere di un mosaico parlante, evocativo, carico di significati, con guide d’eccezione, tra cui Franco Guerzoni e Davide Benati, Arturo Carlo Quintavalle, Arrigo Ghi, Gianni Leone, Massimo Zamboni e la famiglia a cui è stato legatissimo, come ci hanno confermato le figlie Ilaria e Adele.

Ilaria, chi era Luigi Ghirri in privato, al di là del noto fotografo che ha cambiato lo sguardo sul paesaggio?

«Era un uomo curioso, motivato dal desiderio di conoscere, stimolante, simpatico, ironico, divertente. Nonostante la sua passione per l’arte e per la cultura non le ha mai vissute in modo pesante ma con leggerezza e così l’ha trasmessa a noi. È stato un grande esempio di impegno, abnegazione, ricerca di sé e coerenza. Anche nei momenti più faticosi della sua vita non ha mai mollato».

Che padre è stato per voi?

«Sempre molto presente, molto vicino e complice nonostante il lavoro, gli impegni e la nostra grande famiglia allargata. Siamo stati sempre molto uniti, stretti in un legame più che positivo. È stato molto bello averlo come padre. Accanto a lui abbiamo vissuto in pienezza e in una poesia vera, reale».

Perché secondo lei suo padre ha scelto la fotografia?

«La sua enorme voracità intellettuale, la sua curiosità verso tutto, la grandissima gioia di vivere, il suo stupore empatico, l’amore per l’arte e la musica erano accompagnati da uno sguardo profondo, lui vedeva con un suo occhio interiore e la fotografia era un mezzo veloce per dire quelle cose profonde che lui riusciva a cogliere ovunque posasse lo sguardo».

Quindi la fotografia era un mezzo più agile per portare avanti il suo personalissimo progetto di ricerca espressiva in cui la ragion d’essere di ogni scatto si misurava innanzi tutto sul piano dei contenuti?

«Sì, direi che era un giocattolo magico, affascinante, la fotografia per lui era dotata di un fascino intermedio tra pittura e cinema. Considerava le immagini come pagine di un romanzo nate per narrare delle cose sul reale in modo sempre più intellegibile, per fare emergere la memoria del reale, per raccontare il mondo a rovescio».

Come è nata in voi figlie l’idea di questo documentario, che non è il primo?

«Ne sono stati fatti altri due in precedenza, “Il mondo di Luigi Ghirri” di Gianni Celati nel 1998 e “Deserto rosa. Luigi Ghirri” di Elisabetta Sgarbi nel 2009. Questo ultimo lavoro invece è nato in modo totalmente casuale, da un incontro con un amico fotografo che ci ha parlato di un regista molto interessato a nostro padre. Ci ha esposto le sue idee e le abbiamo condivise, in primo luogo abbiamo apprezzato la sua capacità e il suo rispetto per l’ascolto, e accolto con piacere la volontà di partire dai testi di nostro padre, dagli scritti. Che sono importanti perché in essi c’è sempre un pensiero che riesce bene a trasmettere». «Era davvero un bravo comunicatore, molto capace e accattivante. Far parlare lui ha significato non snaturare il suo lavoro, la sua poetica. In questo senso consideriamo il lavoro di Parisini molto onesto e rispettoso. E ciò corrisponde a quello che era il nostro obiettivo: che attraverso il film si leggesse la persona».

Si dice che avesse una particolare vocazione didattica, è così?

«Sì, è una vocazione che appartiene alla nostra famiglia e anche io, come insegnante, porto avanti questa eredità. Nostro padre aveva una grande capacità di parlare ai ragazzi e amava collaborare con i giovani, lo dimostrano anche le lezioni e i suoi libri».

Si può affermare che la sua eredità - che giunge dalle fotografie, lezioni, scritti – riguarda la riattivazione sensoriale dello sguardo per individuare e decifrare segni muti e contenuti nascosti? Qualcuno ha detto che le sue foto dovremmo leggerle come dei “ghirroglifici”.

«Sì, Luigi Ghirri non è storia, è presenza per sguardo, per esperienza culturale, per operazione di ecologia culturale consapevole. I suoi scatti ci dicono che siamo tutt’uno con la natura e che oltre il primo sguardo c’è altro».

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