Denis Campitelli: “Incrocio Shakespeare e il dialetto: che magia”

Denis Campitelli rende omaggio a due mondi apparentemente lontani, il dialetto, o meglio, la lingua romagnola, e uno dei massimi autori della letteratura di tutti i tempi, con il suo A trebbo con Shakespeare, in scena all’Arena della Rocca di Ravaldino di Forlì, questa sera, sabato 9 agosto alle 21).

Denis Campitelli, ma davvero si raccontava Shakespeare durante le veglie nelle stalle?

«Alla base di tutto c’è un’invenzione: per la prima volta questa storia la raccontò Mescolini con Shakespeare in dialèt. Io facevo il tecnico dello spettacolo e quando Franco vide la mia passione me lo “consegnò”, come in una staffetta. E proprio come nella tradizione orale contadina, lo trasformai secondo le caratteristiche del mio stile e della mia personalità».

E aggiunse l’idea del “trebbo”.

«Che mi era sempre piaciuta, sia come tradizione delle campagne romagnole sia pensando al Trebbo poetico che si svolgeva a Cervia alla fine degli anni Cinquanta. Il titolo dello spettacolo incrocia così lingua romagnola e testi del Bardo, mostrando come la prima sia perfettamente all’altezza dei secondi in un incontro... esplosivo!».

Lo spettacolo si basa su tre tragedie molto note, “Amleto”, “Otello” e “Romeo e Giulietta”.

«E la loro storia non cambia, anche se alla fine di ognuno propongo una morale, con tanta... romagnolità! Ma la lingua romagnola ha la capacità di andare dritta al punto: così racconto Amleto come un ragazzo che ha fatto la promessa sbagliata al suo babbo, mentre Otello è un ingenuo che si fa convincere da un prepotente: e la magia è proprio l’incrocio fra la poesia di Shakespeare e quella della fola romagnola».

Una magia incarnata dagli affabulatori.

«Giuseppe Bellosi registrò brani di uno degli ultimi: parliamo di professionalità all’altezza dei grandi attori, che raccontavano a memoria moltissime storie. Così, per collegare questo mondo a quello del Globe, ho inventato che a un banchetto offerto dai nobili di Bertinoro, uno straniero narrasse queste storie, e i contadini presenti le ascoltassero e poi le riportassero nelle veglie, un omaggio alla tradizione di ospitalità del mio paese, e allo spirito di apertura e di accoglienza del “furistìr”, dello straniero».

Lo spettacolo è in romagnolo: e chi non lo capisce?

«Due anni fa lo proposi vicino Roma, e iniziai in italiano. Poi, pian piano il racconto virò, e conclusi in dialetto, con il pubblico ormai completamente preso dal ritmo, dai suoni».

“Certe cose succedono solo in dialetto” diceva Baldini.

«E dietro a una cosa ce ne sono altre dieci, immagini, ricordi, persone, paesaggi dentro e fuori... da tradurre con la recitazione e con la voce, tanto che come insegnava Giovanni Nadiani, anche io lavoro sulla musicalità dei suoni».

Ma c’è futuro per il dialetto?

«È una domanda dolorosa, davanti alla trasformazione potente e veloce in atto non sono molto ottimista. Valorizzarlo attraverso la cultura è importate, ma è scomparso tutto il contesto da cui si alimentava e ora si usano solo quelle dieci frasi stereotipate».

Ma lei è giovane e lo parla.

«Io sono nato in dialetto...».

Info: 370 3685093

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