Sono militari prigionieri di guerra o spensierati villeggianti in spiaggia?

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Il brano che ci apprestiamo a stendere ha già avuto visibilità su questo giornale (si veda il Corriere Romagna del 24 dicembre 2021); lo riproponiamo tra le colonne di questa settimanale rubrica perché, inserito nelle “Pagine di cronaca riccionese dei primi anni del Novecento”, chiude il periodo della grande conflagrazione europea. Un capitolo doloroso, di lutti, privazioni e sofferenza, che con l’attuale e conclusivo episodio si colora di frivolezza. Detto questo procediamo con ordine. Terminata la Grande guerra, Riccione sale agli onori della cronaca per una vicenda legata alla prigionia «dorata» degli ufficiali austriaci. Lo scandalo, perché di questo si tratta, è ampiamente documentato nelle pagine del Corriere Riminese da gennaio a marzo del 1919. La descrizione degli accadimenti, che qui sunteggiamo, si limita a far emergere solo alcuni dettagli della poco edificante storiella: rifiniture piccanti, che tennero desto il chiacchiericcio della piccola frazione adriatica per parecchio tempo. I fatti. Durante il periodo bellico veniva allestito, in località Abissinia, un piccolo aeroporto militare per velivoli da ricognizione e nell’ultima fase del conflitto anche un campo di concentramento per ufficiali austriaci. La maggior parte degli internati, più di un centinaio, anziché starsene accampati al freddo delle baracche, sembra che se la spassassero «nei comodi e signorili alberghi che popolano la magnifica spiaggia» riccionese. «Un raffreddore, una indigestione o un po’ d’emicrania», innaffiati con molto danaro e con molta compiacenza dei medici militari, erano ragionevoli motivi per consentire ai detenuti il salto di qualità: una volta ottenuto il “ricovero” in albergo, la “degenza” assumeva le caratteristiche della “villeggiatura”. Pare, infatti, che i sudditi di Francesco Giuseppe riuscissero «a farsi servire il caffè e il latte nel proprio letto» da certe condiscendenti cameriere con le quali, poi, «per ammazzare le ore della noia», si dilettavano «a ... flirtare». I proprietari degli alberghi, inoltre, preso atto della convenienza di questo optional in tempo di magra – ricordiamo che nei quattro lunghi anni di guerra l’industria del forestiero si era completamente fermata –, «si dividevano in quattro per procurare» ai novelli “turisti” «tutto il comfort moderno, non escluse vivande eccellenti e abbondanti, latte e cioccolato al mattino, the nel pomeriggio, liquori finissimi e champagne durante le ore del giorno». E tutto ciò, si badi bene, in una fase di razionamento alimentare. Nel riccionese, tanto per capirci, lo zucchero, il latte, l’olio, il lardo e le sigarette erano introvabili; eppure, per i “signori” d’oltralpe, tutto questo ben di dio «ve n’era in abbondanza». Il periodico del 5 gennaio 1919 parla perfino di «razzie» compiute negli empori con tanto di permesso militare.La goccia che faceva traboccare il vaso di questo «lusso» elargito ai nostri nemici e che induceva il Corriere Riminese a rendere di dominio pubblico la poco simpatica e per certi versi disgustosa faccenda, era il pranzo di Natale del 1918 offerto ai prigionieri. Scrive il settimanale: «Nelle sontuose sale dell’Hotel Amati, riscaldate e fiorite, convennero nel giorno sacro alla cristianità oltre 120 ufficiali austriaci. Il “modesto” pranzo consisteva: pasta asciutta (tagliatelle all’uovo fatte in casa), lombo di maiale arrosto con contorno, frutta e formaggio, vini di diverse qualità e champagne. Non sappiamo se i signori ufficiali austriaci abbiano pronunciati discorsi, sappiamo solo che fra i cittadini d’Italia che premurosamente servivano a tavola, vi era persona che copre importante ufficio in comune» (Corriere Riminese, 5 gennaio 1919). Il dito è puntato sul cavaliere Sebastiano Amati, che oltre ad essere albergatore è anche assessore comunale. L’anonimo redattore del corriere conclude il suo “pezzo” con una inquietante domanda: chissà se quegli «improvvisati camerieri che servivano l’arrosto, o mescevano il generoso vino dei nostri colli, abbiano pensato che forse quei signori ufficiali austriaci seduti allegramente a tavola sono stati i carnefici dei nostri fratelli?» (Corriere Riminese, 5 gennaio 1919). Gli articoli del periodico provocavano un acceso dibattito in Consiglio comunale e la crisi politica, che ne derivava, si risolveva il 13 gennaio con l’accettazione da parte della Giunta municipale delle dimissioni dalla carica di assessore dello stesso Amati, indignato per non aver ottenuto un’inchiesta sul suo operato (cfr. Corriere Riminese, 26 gennaio 1919). La questione non si fermava sui fogli locali, rimbalzava anche su diverse testate nazionali e finiva, addirittura, nei quartieri alti della politica. L’onorevole Gaetano Facchinetti, infatti, dopo aver svolto una sommaria indagine e accertato la fondatezza degli avvenimenti, li portava in parlamento. Alla sua interrogazione, sul trattamento di eccezionale favore riservato ai prigionieri austriaci e sulle connessioni e gli intrichi del comando militare, il 6 marzo rispondeva alla camera dei deputati il sottosegretario di Stato per la guerra, on. Battaglieri. L’intervento del rappresentante del governo, molto evasivo su tutta la questione ed in particolare sulle responsabilità di certi funzionari delle forze armate, chiudeva la vicenda ma lasciava in sospeso tanti dubbi. E naturalmente l’immagine di Sebastiano Amati – un riccionese «affabile e cordiale» a detta della stampa –, seppure “assolto”, ne usciva molto appannata (cfr. Corriere Riminese, 12 e 26 gennaio 1919; 9 marzo 1919).

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