Si Fest di Savignano: parla il direttore artistico Alex Majoli

Cultura

Prendi un fotografo che non ama i festival e mettilo a capo di un festival. Agita un po’ e versa. Ecco, il cocktail firmato da Alex Majoli è pronto, il Si fest si apre oggi, rimettendo gioiosamente in gioco la sua lunga storia, la sua altalenante fama e il suo piccolo budget. Ma, come dice Majoli che ha improvvidamente accettato di partecipare all’impresa, «l’importante è l’idea, e il progetto è l’idea».
Dunque eccoci qua, con la curiosità di vedere cosa è riuscito a combinare a Savignano un fotografo di strada come Majoli, che ha davvero girato il mondo con la sua macchina fotografica; che partito da Ravenna oggi si muove velocemente tra Parigi, New York e la Sicilia, quando non è su un fronte di guerra, tanto che anche beccarlo al telefono non è facile; che fa parte della più blasonata agenzia fotogiornalistica al mondo, la Magnum fondata da Capa e Cartier-Bresson, e ne è stato pure presidente; che se fosse per lui i festival potrebbero chiudere tutti.
Insomma Majoli, che ci fa qui?
«Il sindaco di Savignano, Filippo Giovannini, mi ha chiamato a ottobre, mentre io ero su un taxi a Barcellona, per propormi di venire a dirigere il Si fest. Io gli ho detto: li chiuderei tutti i festival, e se vuoi lo chiudiamo insieme. Ma lui era serio, ha continuato a chiamarmi, c’era un desiderio sincero che io potessi fare una cosa del genere».
Un inizio confortante.
«Ho chiesto: quanti soldi ci sono? La risposta è che i soldi non ci sono, il budget di Savignano, rispetto ad esempio a quelli di Reggio Emilia o Cortona, è ridicolo, veramente imbarazzante (100mila euro che arrivano a 150mila tra sponsor e Art bonus, ndr). Quindi ho detto: visto che i soldi sono così pochi, li reinvestiamo nel comune e facciamo un festival per i ragazzi delle scuole invece che per i fotografi professionisti che vengono a Savignano per stare al bar a bere la birra, una cosa senza senso che non sopporto. Lui ci ha creduto, e io ho iniziato a pensare a un festival per i bambini e gli insegnanti delle scuole locali».
E come si fa a fare un “festival non festival” così?
«Giocando con le materie che si danno a scuola; il mio ruolo è fornire degli strumenti agli insegnanti, che in questo caso sono le fotografie su cui lavorare. E le mostre si tengono proprio dentro le scuole, con le immagini appese nelle aule, dove le troveranno i bambini al rientro in classe. Così anche noi professionisti torniamo a scuola».

Ma i bimbi saranno preparati a farlo?
«Sono stati fatti dei laboratori con i ragazzi: l’idea è che smettano di essere attaccati al loro telefonino e alle immagini virtuali per confrontarsi con foto vere, appese alle pareti come le mappe di geografia. Il linguaggio visivo è una parte molto importante della loro educazione».
Le immagini quindi sono suddivise per materie.
«Sì, ad esempio per la materia “biologia” viene proiettato un video di Michele Sibiloni, Nsenene, girato in Uganda al tempo della migrazione delle cavallette: gli abitanti le attirano con enormi cilindri illuminati e le vendono per poi mangiarle, per cui gli spunti di lavoro sono tanti, economia, fisica… È un humus incredibile. Per “educazione civica” invece è esposta Lee Miller che ha lavorato durante la Seconda guerra mondiale ma ha fatto anche fashion shooting, una eroina, un esempio per le ragazze».
Come reagirà il pubblico secondo lei?
«Il pubblico mi interessa molto meno. È vero che gli sbigliettamenti sono importanti, ma come ho detto al sindaco: stai rimettendo i soldi nel futuro del tuo paese».
E i fotografi?
«Non me ne frega niente dei fotografi, ma ce n’è anche per loro».
Restano ad esempio i portfolio in piazza ma con nuovi lettori come la coppia di architetti-designer Hisayuki Amae e Miyuki Yajima di Studio Sc Artroom, o il videoartista Yuri Ancarani.
«La lettura dei portfolio è la tradizione, come fare i cappelletti a Natale. Ma vorrei che si parlasse di fotografia il meno possibile, perciò non ci sarà nessun talk: ospiteremo invece gruppi teatrali sperimentali invitati a usare foto per le loro performance. Nel cortile della scuola elementare ogni sera ci sarà uno spettacolo. E niente in piazza: lì ci devono stare i vecchietti al bar a sputtanarsi la pensione».
Ci sono state delle reazioni a tutte queste novità?
«Ci sono sempre quelli che te la mandano… (ride), ma non è Sanremo, non c’è niente di veramente originale nelle mostre non essendoci soldi… Non ci possiamo permettere anteprime. Per avere una foto vintage di Sottsass da un collezionista privato gli ho dato in cambio una mia stampa».
Sottsass, ma ci sono anche altri nomi importanti come Gianni Berengo Gardin.
«Per la materia “scienze” nel corridoio delle Elementari abbiamo fatto la ristampa di Morire di classe di Berengo Gardin e Carla Cerati, un libro storico eccezionale e fondamentale per l’approvazione della Legge 180 e della Riforma Basaglia negli anni Settanta».
Alla fine c’è molto di lei in questo festival.
«Infatti non potevo non metterci Basaglia».
Ricordiamo che il suo primo lavoro importante fu un reportage sull’ospedale psichiatrico dell’isola di Lero, in Grecia. Ma piuttosto, pensa di ripetere l’esperienza a Savignano l’anno prossimo?
«Certo che con questo budget non si può fare molto, ma intanto finiamo questa edizione».

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