Sergio Diotti: le tradizioni romagnole ci nutrono

Cultura

Dopo i timori dell’etnologo Giuseppe Bellosi e dello scrittore antropologo Eraldo Baldini, la preoccupazione di una possibile dipartenza dell’archivio fotografico di Giovanni Zaffagnini di Fusignano per una istituzione straniera assale Sergio Diotti (1953), noto “fulesta” (raccontatore di fole) della Romagna, già protagonista con Stefano Giunchi della grande stagione del Festival di teatro e figure “Arrivano dal mare!”. Diotti riflette sul tema facendo anche autocritica, come uomo di palcoscenico che non sa quale destino potranno avere le sue 44 produzioni teatrali.

Lei pure Diotti difende la permanenza dell’Archivio fotografico Zaffagnini, ma si è occupato di burattini e di narrazione popolare; da dove nasce il suo interesse?

«Sin dagli inizi, e con “Arrivano dal mare!”, abbiamo cercato collegamenti con il mondo della cultura popolare non stereotipati, ma autentici e significativi. Ricordo che Andrea Emiliani, da sovrintendente ai Beni culturali regionali, intervenne sottolineando la positiva relazione del dialetto con molte forme della cultura popolare, burattini e fiabe comprese».

Quanto sono stati importanti gli archivi per i suoi spettacoli?

«Nel fare ricerche per il ciclo del fulesta, mi sono nutrito dei materiali storici di Bellosi e di altri ricercatori, e dei libri di Baldini, da quelli sulle paure e meraviglie in Romagna, al calendario delle tradizioni popolari, né avrei potuto fare il mio lavoro senza tali opere. Altrettanto il Fondo Zaffagnini è stato per me un documento importantissimo, in particolare per la ricerca sull’evoluzione della cultura “materiale” romagnola del dopoguerra; come il riutilizzo dei vecchi attrezzi trasformati in arredi casalinghi. Zaffagnini ha svolto un lavoro di documentazione incredibile in quel campo».

A cosa si deve dunque la sua autocritica?

«Al fatto che la nostra ricerca teatrale, sfociata in spettacoli che si nutrono di temi della nostra cultura popolare, come Denis Campitelli continua a fare, ha conquistato il pubblico ma non ha fatto breccia nelle istituzioni. Oggi il festival “Arrivano dal mare” pur con traversie resiste, così come L’Atelier delle Figure spostato a Faenza; il Museo dei Burattini di Cervia Villainferno è invece chiuso».

Come a dire: su il sipario, ma giù gli archivi documentari.

«E pensare che tanti anni fa, credo nei Novanta, partì un progetto di videoteatro documentario. Finanziato dalla Regione Emilia-Romagna, teneva insieme Riccione Ttv, Centro Teatro di Figura e la sezione archivi del San Biagio di Cesena. Addirittura in quell’occasione si inventò il primo sistema di classificazione dei video, procedimento con cui schedammo i primi 500 video del nostro archivio Ctf».

In generale come vede la situazione archivi in Romagna?

«Ci sono esempi positivi, penso al Museo Etnografico di Santarcangelo sulle tradizioni popolari, al Laboratorio di ricerca sulla cultura popolare di Gualtiero Gori a Bellaria, ma un vero centro etnografico di riferimento, che funga da collegamento, manca».

La responsabilità è più degli artisti, dei ricercatori o delle istituzioni?

«Le istituzioni sono vittima, storicamente, di un inquadramento della questione culturale che fa sì che i temi popolari siano sempre sottostimati. Il teatro sfuma, rinasce ogni volta, ma ciò non impedisce un lavoro di archivio e documentazione. All’interno del teatro di figura nazionale, prima noi come Adm, oggi il Teatro del Drago, abbiamo sempre avuto attenzione nel documentare e mantenere in vita le tracce del lavoro svolto».

Ciò vale anche per linguaggi d’arte diversi.

«Come può essere quello legato alla nostra musica popolare. Senza un archivio importante come ad esempio è quello di Casadei Sonora, con canzoni e partiture per le orchestre, oggi tanti operatori documentari, compresa Elisabetta Sgarbi, non avrebbero potuto dare voce al liscio. Penso anche al lavoro di ricerca fra teatro e dialetto sviluppato dal Teatro delle Albe, a quello fotografico di Pier Paolo Zani di Savignano sulla tradizione romagnola. Sul mio lavoro sono state già fatte due tesi di laurea, ma ancora mi domando a chi destinare copioni e ricerche delle mie 44 produzioni».

Perché dunque un’università straniera desidera avvicinarsi al fondo Zaffagnini?

«Un’ipotesi può essere il fatto che oggi una parte del mondo ha bisogno di nutrirsi delle tracce delle culture minori contro la globalizzazione; è un tema ricorrente anche nello slow food la diversità, il prodotto autentico. Anche Salgado e Steve Mc Curry hanno puntato l’obiettivo sulle comunità locali. La fotografia riesce a farti trovare nel mondo».

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