Sentenza choc, lo sfogo della madre di Balla: "Pura follia"

LUGO. «Pura follia, una sentenza ribaltata, che ha deciso che mio figlio non è stato ucciso, ma è morto per una semplice ragazzata. E lui si chiamava Matteo, non Luca, come ha ripetutamente sbagliato il giudice». La rabbia di Sabrina Bacchini, madre di Matteo Ballardini, ha preso il posto delle lacrime versate mercoledì a Bologna, quando la Corte d’Assise d’appello ha ripercorso l’agonia del figlio 19enne trovato morto il 12 aprile del 2017, abbandonato in overdose dagli amici che erano stati con lui tutta la notte. Il suo sfogo per la decisione della Prima sezione della Corte felsinea, non risparmia il presidente e giudice relatore, Orazio Pescatore; non solo per l’esito del processo, che ha derubricato le accuse di omicidio volontario in omissione di soccorso e morte come conseguenza di spaccio di lieve entità per i quattro giovani imputati, riducendo drasticamente le pene per Beatrice Marani (da 15 anni e 4 mesi a 4 anni e 10 mesi), Leonardo Morara (da 14 anni e 2 mesi a un anno), Simone Giovanni Palombo e Ayoub Kobabi (da 9 anni e 4 mesi a 8 mesi). Ma anche per quel fastidioso errore nel nome della vittima. Ripercorrendo le tappe di quella tragica nottata, il magistrato ha sbagliato più di una volta. «Lo ha chiamato Luca - continua incredula la madre -, “Ballardini Luca”, non Matteo. E lo ha fatto parecchie volte».

Signora Bacchini, è scontato chiedere se siete rimasti delusi dalla sentenza. Che cosa ha pensato alla lettura del dispositivo?
«Siamo rimasti pietrificati. È passata la tesi secondo la quale è stata tutta una bravata. Ma un’omissione di soccorso è ben altro. Quei ragazzi sono stati con Matteo che stava male dalle 23 fino alle 7 di mattina, facendo festini, bevendo birra, mangiando paste e dandogli della coca quando già era in overdose. Avrebbero potuto salvarlo, bastava una telefonata, un gesto, o lasciarlo in mezzo alla strada e qualcuno l’avrebbe trovato in tempo. Hanno deciso di non farlo».

Questa era la tesi della Procura generale, sulla linea della condanna in primo grado… Eravate soddisfatti di quella sentenza?
«Era stata inflitta una punizione esemplare. C’era un senso di giustizia. Tanti ragazzi spacciano pensando di farla franca. Che esempio diamo la società? Sa cosa penso? Che alla fine l’unico che finirà in galera sarà il barista cinese che vide per tre minuti mio figlio e lo filmò, dato che ora i giudici lo hanno tirato in ballo con quest’ultima sentenza».

Aveva un presentimento che le cose non sarebbero andate come in primo grado?
«Sì, il modo in cui il giudice ha esposto la vicenda mi ha fatto capire molte cose. Mi sembrava distaccato. Poi ha iniziato a sbagliare il nome di mio figlio».

Come?
«Lo chiamava Luca. Ma quello è il nome di suo padre. Quando lo ha ripetuto ci siamo guardati, lui mi fa, “ma che cosa sta dicendo questo?”. Poi ancora, “Ballardini Luca”. Finché non lo ha chiamato solo “il Ballardini”. Nulla di offensivo, ma dal mio punto di vista è stata una grande mancanza di rispetto per quel che è successo».

Com’è cambiata la sua vita dal 2017?
«Tutto è cambiato. La felicità è una cosa che non c’è più. Le nostre vite hanno un segno indelebile, una ferita che sanguina in continuazione. In qualsiasi momento penso a Matteo. Finora mi sono svegliata ogni giorno, sono andata a lavorare almeno con un senso di giustizia, pensando che la sua morte potesse essere un insegnamento per aiutare altri ragazzi nelle sue stesse condizioni. Ora riprovo quel senso di rabbia unito a una rassegnazione che non avevo più».

E fra gli amici di Matteo?
«Dopo la sua morte molte compagnie si sono divise. Erano un gruppone e all’interno ogni tanto c’era chi faceva uso di sostanze. Da allora c’è chi ha preso le distanze da certi personaggi».

È rimasta in contatto con qualcuno di loro?
«L’altra sera, dopo la sentenza molti mi hanno mandato messaggi su whatsapp. Erano sconvolti. Con alcuni di loro ci sentiamo regolarmente, vengono a cena, chiacchieriamo, si confidano».

E con gli imputati ha più avuto contatti?
«No. Nessuna lettera di scuse, né da parte loro né da parte delle famiglie. Io piangevo in continuazione mentre venivano ripercorsi i fatti. Fra loro c’è chi lo ha fatto davanti alle forze dell’ordine, ma penso fosse solo una messinscena, così come i messaggini mandati la mattina dopo a mio figlio per chiedergli se andava tutto bene, precisando che gli avevano spento il cellulare perché così non avrebbe avuto problemi con me. Problemi? Mio figlio mi chiamava cento volte al giorno per qualsiasi cavolata… No, in quei ragazzi non ho visto né empatia né segni di pentimento».

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