Santarcangelo, i figli di Bertoli e Graziani al Cantiere poetico

Cultura

Essere figli d’arte equivale ad avere un maestro personale e speciale? Ma seguire le orme dei padri in cosa si traduce?
Cerca di scoprirlo il “Cantiere poetico per Santarcangelo” ospitando oggi allo Sferisterio, dalle 21,30, Alberto Bertoli e Filippo Graziani rispettivamente figli di Pierangelo e Ivan. Ne abbiamo parlato con Alberto che sarà protagonista del primo concerto affiancato da Moreno Bartolacelli. Proporrà brani inediti dell’album “Stella” e le 2 cover del padre che esso contiene “Eppure soffia” e “Spunta la luna dal monte” nonché “Giulia” scritto insieme. Musicista e cantautore di sangue, nato nell’80, con una passione coltivata fin da piccolissimo ha molti dischi all’attivo e un’ampia frequentazione sui palchi che alterna al lavoro di logopedista. Sembra strano ma una spiegazione c’è, come afferma.
«Mio padre si preoccupava che avessimo un mestiere serio perché riteneva che la musica non fosse una garanzia ed era bene tenerla come svago, condivisione, e fu contento quando mi iscrissi a medicina. Purtroppo lui si ammalò quando io ero al 3° anno, diedi la colpa alla medicina di non averlo salvato, così interruppi. Più tardi scelsi la logopedia, ora sono contento e il lockdown me lo ha dimostrato».
Il Cantiere è dedicato ai maestri, chi sono per lei e suo padre lo è stato?
«Beh bisogna distinguere su cosa si intende per maestri. Chi insegna o chi sa fare delle cose? È diverso. Per me insegnare è un’arte difficile e non tutti sono capaci di farlo. Mio padre era un grandissimo cantautore con straordinario talento e sensibilità infinita ma probabilmente non era il più grande insegnante del mondo, almeno secondo la mia esperienza di bambino».
Immaginiamo abbia assecondato la passione che vi univa?
«Certo. Sono stato fortunato a intercettare una corrente di empatia con mio padre. C’era tra noi una linea sottile e quando capì che ero votato alla musica ed ero testardo lo accettò».
Essere figli d’arte e portarsi addosso non solo il nome ma anche la voce, il talento, le somiglianze quanto pesa? E come si fa a reinterpretare i lavori dei padri restando fedeli a sé stessi?
«Prima di tutto è necessario fare pace con questa questione. O si accettano i confronti e le critiche o si fa altro! Inutile negarlo, essere figli di, significa nascere in un modo dove il fattore genetico è predominante. La mia laringe e la mia struttura facciale sono simili a quelle di mio padre e quindi non posso essere diverso da come sono. Si nasce così. Poi standogli accanto ho imparato a cantare da lui. Oggi riarrangio le sue canzoni in modo più moderno, molte erano figlie dell’epoca e le propongo come una citazione, altre sono eterne, come ad esempio “A muso duro”. Importante è trovare concetti della nostra vita dentro quelle parole lì. Perché il mio senso è diverso dal suo».
Come suo padre, lei usa la parola, quanto è importante?
«Molto. È ovvio che io utilizzo parole diverse. Uso un registro meno colto, più semplice perché desidero essere compreso in modo veloce. Una canzone deve contenere parole che emozionalmente diventano uno stimolo ed è importante ridurle farle stringate come nella poesia, basti citare Ungaretti».
Lei è un emiliano doc, quanto ne è influenzato e cosa si eredita dalla terra nativa?
«Tanto. In tutto noi c’è una forte componente della propria terra che forgia un determinato carattere».
Poi ci sono luoghi come Santarcangelo che fanno nascere una moltitudine di poeti. Che ne pensa?
«Penso che si possa fare un parallelo e che sia anche molto azzeccato con la mia città: Sassuolo, dove sono nati una miriade di cantautori. Non so se c’è qualcosa legato al luogo, da noi c’era un’intera sezione di archi che strutturava un’orchestra e da voi?
Dicono che sia per via dei matti…
«È condivisibile, follia e visionarietà camminano insieme!”.

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