San Marino, Claudio Bisio si racconta al teatro Nuovo

Approda oggi alle 21, al teatro Nuovo, Claudio Bisio col suo ultimo spettacolo, unica data in Romagna, un po’ romanzo di formazione, un po’ biografia, La mia vita raccontata male, una produzione del Teatro Nazionale di Genova, regia di Giorgio Gallione. È un racconto di storie belle e lati oscuri, profondo e insieme giocoso, personale, ideale, civile, etico.

Bisio, l’ultimo lavoro in teatro è del 2014. Le mancava? Pensiamo al covid ma anche ai tanti impegni televisivi e cinematografici...

«Assolutamente sì. Ho sempre voglia di fare teatro che è il primo amore. È nella mia testa e nel mio cuore, e se non recito ci penso. Lo gestisco in modo che non mi stanchi mai e mi permetta di fare altro. In realtà il precedente spettacolo era iniziato nel 2014 ma ha girato per tre anni e subito dopo abbiamo pensato a questo nuovo lavoro. E anche stavolta faremo una tournée lunga, non a caso abbiamo lasciato fuori Roma, Milano e altre città, ora chiudiamo a marzo e riprenderemo il prossimo anno».

Come ha costruito questo lavoro? A quattro mani con il regista?

«Io e Gallione abbiamo lavorato sui materiali di Francesco Piccolo che è un amico e con cui ho fatto anche dei reading. Conoscendoci ci ha dato libero accesso alla sua opera omnia e anche un paio di inediti. Io conosco tutti i suoi testi e lui ci ha concesso una libertà pazzesca, si è fidato. Così noi abbiamo fatto taglia e incolla, in questo siamo maestri».

C’è un po’ di vita reale e un po’ romanzata? Ma c’è un po’ o molto di lei dentro?

«Ci ho messo un po’ del mio e replica, dopo replica, adesso c’è molto più del mio. È un’autobiografia sua ma anche un po’ mia!».

Cosa vi unisce e cosa vi differenzia?

«Io e Francesco siamo entrambi boomer e lui ha solo scritto meglio ciò che io sento e condivido, nei suoi testi ci sono tanti riferimenti che ci accomunano. Un solo elemento ci differenzia: lui è del Sud e io profondamente del Nord e forse questo arricchisce la sua scrittura e la struttura narrativa che io prendo e faccio mia anche se non mi appartiene».

Com’è lavorare in teatro con lo stesso regista col quale collabora da decenni? Dice che le vostre vite si sono incrociate tante volte fin dagli esordi, lui l’ha fatta tornare al Piccolo. Verrebbe da chiederle: vi capite a sguardi?

«Sì, è così, già lui è uno sobrio, parla poco e le poche volte che lo fa, le sue parole sono più che efficaci. Io e lui il lavoro più intenso lo facciamo sulla scrittura e in questo caso è stato entusiasmante, faticoso ma divertente, abbiamo anche giocato perché c’era tanto materiale che ci piaceva ma serviva tagliare perché uno spettacolo teatrale non può durare più di un’ora e venti minuti, soprattutto di questi tempi con le mascherine…».

Come si rapporta con la musica dal vivo? Qui ha accanto due musicisti, Marco Bianchi e Pietro Guarracino.

«In tutti i miei spettacoli ci sono dei musicisti e sono fondamentali. Le musiche di Paolo Silvestri scritte ad hoc hanno un ruolo di prim’ordine. Infatti non lo definirei un monologo perché per me c’è una significativa interazione fra voce e musica. Qualcuno lo ha definito un melologo e qualcun altro lo ha avvicinato al “teatro canzone” di Gaber, considerazione che mi onora moltissimo e ci fa molto piacere».

Cosa significa far ridere? Ha dichiarato che da piccolo voleva fare il clown, pensa di essere stato abbastanza coerente, di esserci andato vicino?

«Il comico è un punto di vista della realtà. Per me tendenzialmente comico è ciò che è spiazzante, un po’ imprevedibile, inaspettato. Pensa, chi fa ridere in assoluto? I bambini, i matti, gli anziani, che non hanno freni e fanno delle gaffe. È questa spontaneità che mi piace. Ci sono tanti generi di comicità ma io tendo a non darmi definizioni».

Ah, questa era la mia prossima domanda. Come si definirebbe?

«Lascio ai posteri la definizione. Non ce l’ho io una definizione ma ripeto che non mi piace la comicità costruita».

Il suo amico Giorgio Terruzzi ha detto: «La parte al sole ride e fa ridere. La parte all’ombra pensa, seria seria». È così?

«Assolutamente sì, siamo molto amici e lui conosce questo lato oscuro della luna che io ho».

Lella Costa invece: «È possibile ammirare il percorso di qualcuno che fa il vostro mestiere, trovarlo ogni anno più bravo, non provare invidia e ritenere un gran privilegio condividere il palcoscenico con lui». Che dire?

«È così, insieme lavoriamo benissimo e condividiamo impegni diversi, anche sociali come una mostra sul Parkinson. Ma non accade solo con lei. Mi faccio un complimento, credo che un mio pregio sia quello di amare i miei colleghi, godere del loro successo. Il mio stargli accanto è un piacere anche fisico, lo si vede a Zelig. Senza di loro non ci sarei stato io, non a caso dopo 10 anni l’ho ripreso. Era giusto sospendere e ora è bellissimo rivederci, incontrare gente nuovissima, abbiamo realizzato un bel lavoro di scouting, questo mi emoziona tantissimo».

C’è qualcosa che non ha ancora fatto e che le piacerebbe fare? E dice: lo farò quando avrò tempo.

«Ma! Boh! Timidamente dico che non ho mai fatto una regia e in un futuro al cinema potrei, perché no? Se troverò la storia giusta, una bella storia, e comunque sarà senza di me come attore».

Due parole sulla Romagna?

«La amo moltissimo. Non vedo l’ora di andare a Longiano, a Roncofreddo a mangiare e a Cesenatico a giocare a padel. Ricordo con tanto piacere la Carpegna dove ho girato il film “Asini”, di cui avevo firmato la sceneggiatura, il mio primo film romagnolo, visto che ora tutti i comuni di quella valle sono in Romagna».

E sulla situazione geopolitica, sulla guerra cosa pensa? Ha paura?

«Sì, assolutamente. Una tragedia. La mia posizione è utopistica, spero sempre in una rivoluzione da parte del popolo russo. E penso alle tante manifestazioni contro la guerra in Vietnam. La richiesta di pace deve unire tutti i popoli».

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