Samorì: «La decadenza è incorruttibile perché non teme lo sfregio»

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RAVENNA. Le opere di Nicola Samorì, che siano dipinti o sculture, guardano al passato: alle iconografie di Cristi e santi, al buio della Controriforma, alla crudeltà delle nature morte e al senso della precarietà dell’esistenza delle vanitas del Seicento. Questo è il suo modo di attualizzare l’arte, il suo tentativo di fermare il senso di inquietudine e decadenza della contemporaneità.
Il suo grande talento, ormai riconosciuto a livello internazionale, trova sempre nuove occasioni di importanti confronti, a contatto diretto con le opere del passato, come avviene ancora fino al 21 febbraio nella personale Solstizio d’inferno in corso alla manica lunga della Biblioteca Classense (ingresso libero) per il progetto “Ascoltare bellezza”, promosso con l’assessorato alla Cultura e a cura di Paolo Trioschi.
Qui l’opera dell’affermatissimo artista forlivese, da tempo residente a Bagnacavallo, entra in dialogo con la sala del mosaico, ovvero l’elegante mosaico pavimentale rinvenuto a Classe e collocato qui alla fine dell’Ottocento, nell’allora pinacoteca dell’Accademia di belle arti.


A Napoli
In contemporanea, Samorì presenta a Napoli Black square, a cura di Demetrio Paparoni per la Fondazione Made in Cloister: un’originale collocazione nel recuperato chiostro cinquecentesco di Santa Caterina e al Museo archeologico nazionale, in dialogo con i famosi busti e bronzi ivi conservati provenienti dalla villa dei Papiri di Ercolano.

Samorì, perché ha creato le opere: “Santa Lucia” e “Solstizio d’inferno” per la sala del mosaico della Classense?
‹‹Il titolo della mostra è scaturito da un equivoco che ha avuto luogo durante uno scambio di email con il curatore della mostra, Paolo Trioschi. Invece di “inverno” ho letto, distrattamente, “inferno” e l’errore si è fatto strada con rapidità guidando la scelta dell’opera più grande in mostra, alla quale ho attribuito lo stesso titolo. “Lucia”, invece, è stata scelta perché anticamente il giorno del solstizio veniva indicata in coincidenza con la data del suo martirio, il 13 dicembre. Entrambi i lavori sono realizzati a olio su pietra (onice e pietra di Trani per l’esattezza), materia simile a quella che incontrano i piedi e gli occhi quando si fa ingresso nella sala del mosaico, una storia minerale che ancora oggi possiamo calpestare. A questa vastità ho replicato con due dipinti di piccolo formato, preziosi, da scoprire avvicinando gli occhi. Solo allora ci si accorge che, fra le altre cose, gli occhi di Lucia non sono dipinti, ma cavi, sono fessure naturali apparse sezionando la pietra, e che il disco solare che campeggia nella parte alta di Solstizio d’inferno altro non è che una macchia naturale dell’onice››.
Come si giunge attraverso la pittura ad «ascoltare la bellezza» e raffigurarla come un mosaico di peccato e redenzione, di santità e umanità, di sofferenza e passione?
‹‹La pittura è muta, non può nemmeno essere letta, ed è straordinario. Rompiamo questo silenzio con i passi e con i commenti oppure, quando il silenzio è perfetto, con il ronzio che ci arriva da dentro››.
In un talk tenuto per la mostra “Blake square” a Napoli ha parlato di «potenzialità della decadenza». Quali sono?
«La decadenza, in un certo senso, è incorruttibile perché non teme lo sfregio, la mutilazione e l’umiliazione della sua integrità. Noi stessi incarniamo una decadenza vivente, invecchiamo come invecchia il corpo dell’arte, anche se più rapidamente. Non mi interessano la plastificazione e il sottovuoto della forma, per questo Napoli mi è congeniale; è una città che respira, dove non è possibile cogliere una demarcazione fra il vecchio e il nuovo, dal momento che tutto invecchia rapidamente e l’archeologia sembra fresca. Intorno a questo equivoco ottico ha preso forma il mio intervento al Mann dove, a un primo sguardo, nulla, nelle stanze della Villa dei Papiri, sembra cambiato, finché non ci si accorge, a un secondo sguardo, che le mie incursioni non sono frammenti antichi, bensì immagini perfettamente conchiuse, che non mancano di nulla anche laddove sembrano ferite. Geodi e bolle d’aria, croste rocciose e concrezioni cristalline, creano un paesaggio minerale dove storia e preistoria si avvitano››.

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