Roy Menarini presenta il suo "La grande illusione"

La sua storia di spettatore è una storia nella quale si può ben riconoscere una intera generazione di cinefili: certamente quella nata tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del XX secolo. Ma la sua storia di spettatore è anche quella del docente di cinema che la propria passione l’ha passata anche al contropelo con gli strumenti dell’analisi e dello studio accademici. Ecco perché “La grande illusione. Storie di uno spettatore” (2022, Minimum fax) di Roy Menarini ha il pregio di lasciarsi leggere con leggerezza ma al contempo come manualetto che getta luce sui profondi cambiamenti che hanno riguardato l’arte cinematografica negli ultimi decenni. L’incontro con l’autore è in programma alla Biblioteca L. Dal Pane di Castel Bolognese lunedì 23 maggio (ore 21), all'interno della rassegna “Un castello di libri.. in primavera”.

Lo spettatore Roy Menarini ne La grande illusione passa attraverso 10 stanze, 10 ricordi di visione. Dal primo film visto all’età di sei anni, “Guerre stellari” di Lucas (1977), al primo visto senza genitori al cinema parrocchiale, un «horror avventuroso molto cruento» (“L’ultimo squalo”, Castellari, 1981), per arrivare alla prima vera visione che squarcia e infonde il virus della cinefilia (“Cuore selvaggio”, David Lynch, 1990) e concludere con la frequentazione dei festival cinematografici (a Venezia, nel 1994, il thailandese “Vive l’amour” di Tsai Ming-liang).

Menarini, emerge una sorta di mitobiografia generazionale. Ma più che altro viene da pensare e da chiedersi: quanto si è perso di quell’aura che c’era un tempo intorno al cinema?

«In effetti c’era un tempo un modo di vedere il cinema d’autore, un immaginario del cinema, che sono venuti a mancare. Quello che oggi manca è una relazione con il grande schermo che era un tempo molto forte. C’era un investimento emotivo e culturale intorno al cinema che negli ultimi anni si è molto indebolito e che sopravvive solo in nicchie».

L’Italia, tra l’altro, è purtroppo anche un caso a sé stante rispetto ad altri Paesi. È così?

«Sì, c’è un caso Italia e ormai la definiamo crisi di sistema. Dopo il Covid altrove si è tornati al cinema, da noi no. Ma il Covid ha causato solo una intensificazione drammatica di qualcosa che era già in atto. Questo rapporto fragile della cultura italiana con il cinema va avanti da parecchio tempo e ha tante concause. Una è la quasi completa assenza del cinema dalle scuole, un’altra è il dominio del sistema televisivo».

E ora la concorrenza dello streaming…

Non c’è sempre una correlazione diretta con il calo degli spettatori nelle sale: ci sono mille altre cose nel mondo del tempo libero che rivaleggiano. Ma è certo che lo streaming è una sirena molto forte. Il problema è che il cinema in streaming perde tutta quella forza simbolica che ha la relazione sociale che si instaura al cinema in sala. Lo streaming è tutto orizzontale, piatto, ci sono centinaia di prodotti che escono ogni giorno, non mettono radici, ognuno li consuma in casa propria».

I dati recenti sui consumi in sala cosa ci dicono?

«Che la prossima stagione 2022/23 sarà decisiva. Se non tornano gli spettatori in sala, si prevede la chiusura di una grossa percentuale. La situazione è molto problematica. Si è passati dai 27/28 milioni di spettatori dell’epoca pre Covid a circa 20 milioni. Si è perso, in particolare, il blocco tra i 40 e 60 anni».

Le soluzioni?

«Ce ne possono essere sia nell’immediato, agendo ad esempio sulla leva del biglietto, che nel medio-lungo periodo con la divulgazione nelle scuole e interventi per liberare ad esempio gli esercenti da contratti soffocanti con la distribuzione. Un problema è anche la promozione, perché non si sta facendo nulla: in questo momento si sta solo guardando il Titanic che affonda».

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