Roberto Matatia e il suo "Passerà": l'intervista

La retorica del “perché non succeda mai più…” riempie queste giornate, il 27 gennaio, il 10 febbraio, date che segnano pagine buie per la storia dell’umanità. Ne parliamo con Roberto Matatia, consigliere comunale a Faenza, scrittore e giornalista, ma anche testimone ed erede di una storia dolorosa, quella di una famiglia sterminata ad Auschwitz perché ebrea. «Sappiamo che quello che è successo, succede e succederà ancora – commenta l’autore del recentissimo “Passerà. Storia di una famiglia ebrea” – forse non nei numeri e nella dimensione della Shoah: quando vedo però le immagini di profughi appoggiati ai fili spinati, finisco per pensare che l’uomo non sia poi cambiato tanto».

L’economia, la politica, ma anche la cultura: quali di questi fattori ha le colpe più gravi?

«Rispondo con un esempio. Quando mio nonno e mio padre, dopo le leggi razziali decisero di lasciare l’Italia, avrebbero voluto migrare negli Usa o in Gran Bretagna. Li accolse soltanto la Bolivia, l’unica che in quel periodo accettava ancora ebrei. Ecco, tutti e tre gli elementi contano, ma quanto è forte il pregiudizio! Il pregiudizio ci appartiene, e quello contro il popolo ebreo ha una storia lunga migliaia di anni. Spesso chi aveva il potere lo ha usato per deviare il malcontento della popolazione: il male era in chi voleva minare il potere costituito, non nel proprio cattivo governo! Lo fece Hitler, prima di dare una veste eugenetica al razzismo nazista, e prima ancora i “Protocolli dei Savi di Sion” che Julius Evola avrebbe poi definito non “veri”, ma “veritieri”, furono fatti pubblicare dal potere zarista alla fine del XIX secolo per catalizzare la protesta popolare verso gli ebrei, e stornarla da sé».

Allora, celebrazioni che durano una settimana, sono utili?

«Certo, sono contrario semmai a focalizzare tutto in quelle giornate. Sembra infatti che noi ebrei esistiamo dal 20 al 28 gennaio e si dimentica inoltre che l’industrializzazione del martirio non toccò solo noi. Per questo bisogna insegnare ai giovani a riconoscere i germi del male, mentre proprio in questi giorni si assiste addirittura a banalizzazioni della Shoah».

Anche da parte di chi veste uniformi a righe per protestare contro il Green Pass...

«Anche: mi pare che queste persone non conoscano la storia, e vogliano ignorare che mentre non vaccinarsi è una scelta, nascere ebreo non lo è. Dal canto mio, purtroppo mi sono trovato varie volte in pericolo di vita per malattia, ma sono laureato in giurisprudenza non in medicina, e quindi la mia forma mentis è la fiducia nei medici».

Lei ha partecipato negli scorsi giorni alla installazione a Forlì delle pietre d’inciampo che ricordano i suoi familiari: il valore del ricordo è comunque importante.

«Certo, e ve lo dimostro anche con un’altra storia, più laterale ma ugualmente significativa. La mia famiglia era originaria di Corfù e i tre fratelli che si trasferirono in Italia negli anni Venti andarono a vivere uno a Bologna, uno a Faenza, e uno appunto a Forlì. Le pietre d’inciampo ricordano questa famiglia: Nissim con la moglie Matilde Hakim e i tre figli: Beniamino detto Nino, Roberto e Camelia, miei cugini. Quando Nissim fu espulso dall’Italia, parte della famiglia si nascose a Savigno, sull’Appennino bolognese e Camelia conobbe Mario, un ragazzo cristiano di cui si innamorò. Ma il 1° dicembre 1943 i fascisti arrivano in paese, sicuramente in seguito a una delazione perché vanno a colpo sicuro nelle case in cui si nascondevano ebrei. Camelia riesce a rubare qualche attimo per scrivere a Mario, raccontandogli la sua pena, e il dolore di non poter costruire un futuro insieme. Quando viene portata via lascia cadere quel biglietto che una donna raccoglie e fa avere al destinatario. Trent’anni fa quel Mario, ormai anziano, me lo portò insieme alle altre lettere di Camelia, perché si sentiva vicino alla fine e voleva che quelle lettere preziose, il ricordo di una ragazza uccisa ad Auschwitz non andassero dispersi».

Parliamo ancora di Memoria: una petizione chiede che il nome della riccionese “Villa Mussolini” sia riportato a quello originale: ci spiega perché?

«Un gruppo di amici si sta impegnando infatti perché la villa di Riccione che apparteneva a Rachele, e che era vicina a quella dei Matatia, i “vicini scomodi” appunto, torni al suo nome originale di “Villa Margherita”. Io credo però che blocchino l’iniziativa perché cambiare la denominazione potrebbe costituire un danno per il turismo: quel nome infatti costituisce un richiamo e la villa ospita matrimoni, mostre, eventi…. Io soprattutto vorrei che venissero richiamati i ricordi negativi legati a quei luoghi, la memoria di una famiglia perseguitata che è poi simbolo di milioni di ebrei uccisi, del dramma di un intero popolo. Nessuna Amministrazione finora ha avuto questa sensibilità: ma ho la sensazione che qualcosa stia cambiando, e che ci possa essere speranza di mantenere anche in questo modo il ricordo perpetuo di quello che è successo».

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