Scarafaggi, afa e cellulari a mille euro: l’inferno delle carceri romagnole

Rimini

Afa, scarafaggi e penuria di divise. In carcere l’inferno non va mai in vacanza. Lo conferma Roberto Cavalieri, garante dei detenuti della nostra regione. In Romagna le tre strutture penitenziarie sono di dimensioni ridotte e sommando la popolazione carceraria, circa 400 detenuti, si ottiene un unico istituto dell’Emilia.

Dietro le sbarre, oltre che per sovraffollamento, si soffre «per strutture vetuste a cui manca la versatilità per una ristrutturazione che soddisfi esigenze complesse». Rimini, dal canto suo, fa i conti con l’estate che gonfia il numero delle presenze finché l’aumento di crimini e arresti ingolfa le celle. Le cifre che lievitano, prosegue il referente regionale, travolgono poi i servizi interni al carcere «dalla sanità alle cucine, abbassando la qualità e allungando le code».

Criticità e proposte

Eppure una prima soluzione c’è. Secondo Cavalieri, basterebbe portare a compimento il carcere da 450 detenuti da anni in costruzione a Forlì «chiudendo poi quello di Ravenna o destinandolo alla custodia attenuata». Altro nodo? Manca la continuità assistenziale, che sulla carta è assicurata nel forlivese, ma poi latita ovunque specie durante la notte. Capitolo a parte i servizi igienici: a Forlì manca il bagno in cella, a Rimini ci sono docce comuni ma, al netto dei casi, in un contesto di cattività il concetto di privacy finisce alle ortiche, «perché si divide la cella con perfetti sconosciuti». Problemi che si amplificano se si tratta di anziani, qualora la colonnina di mercurio non accenni a scendere. A moltiplicare le complessità, incalza il referente, contribuiscono problematiche psichiatriche e dipendenze o una vita in strada che si trascina dietro l’incapacità della cura personale. «In carcere – rincara Cavalieri puntando il dito sulla corresponsabilità – non si registra una sufficiente distribuzione di detersivi, detergenti o disinfettanti». Ma non solo: l’umidità la fa da padrone, mentre il rischio di scarafaggi è la norma. Un altro scoglio è la mancanza di agenti e mezzi che talvolta rende più facile eludere i controlli. Allargando le maglie, i beni proibiti acquistano poi un valore di mercato. Una situazione che, ad esempio, fa proliferare il commercio sottobanco di cellulari, anche miniaturizzati, «venduti sino a mille euro al pezzo». La trasgressione parla anche un linguaggio 2.0 puntando su droni che trasportano e lanciano droga nel cortile del carcere. «L’ultimo caso, a Ravenna, ha visto nascondere sostanze stupefacenti in un pacchetto di sigarette», ricorda notando che si pagano prezzi esosi tramite parenti o favori personali. Da qui l’invito alla cautela per eventuali concessioni, come appunto l’uso dello smartphone, «perché occorrono misure particolari per chi ha compiuto reati sessuali ma anche perché non è detto che tutti sappiano gestire la normalità nel migliore dei modi». Occorre, in sostanza, un filtro all’adesione di qualunque progetto di convivenza, fermo restando l’obiettivo di migliorare i servizi. Bene lo spettacolo teatrale, quindi, ma «servono interventi propedeutici per l’avvicinamento alla cultura e una mediazione per gli stranieri».

Un problema lungo 365 giorni restano infine le poche cattedre e la povertà che vede molti «senza una casa dove tornare». Ecco perché le politiche del welfare territoriale «devono entrare in carcere evitando la generalizzazione che è il nemico numero uno della rieducazione». Da qui l’idea di potenziare la prevenzione, moltiplicando e trasferendo altrove esperienze come la Papa Giovanni XXIII e interventi che permettano «di non passare dal carcere ai giovani, che vedono il cielo a quadretti, al costo di 180 euro al giorno per lo Stato».

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