Rimini. “Parlo con mio figlio ma non mi ascolta”. L’esperto: “Ecco che fare”

Rimini

«Parlo, parlo ma mio figlio non mi ascolta». Nella comunicazione quotidiana può capitare che un genitore abbia l’impressione di girare a vuoto inasprendo il senso di inadeguatezza. Come porre, allora, le basi per un dialogo costruttivo? Ne parliamo con Davide Moretti, psicologo e psicoterapeuta oltre che docente di Comunicazione nelle scuole superiori di Rimini. Un dialogo efficace con i figli, a suo avviso, si basa sull’osservazione e sull’ascolto attivo, riflettendo su cosa ci vuole dire il bambino, senza aggiungere altro né interrompere di continuo. Per riuscirci «occorre far leva sull’empatia e la creazione di un ambiente sicuro dove i figli si sentano liberi di esprimersi». Fondamentale anche «evitare giudizi e fornire risposte oneste, incoraggiando la condivisione di sentimenti ed esperienze».

Moretti, come comunicare in modo efficace con i bambini nella prima infanzia?

«Il primo spunto di riflessione è quello di evitare la ridondanza. Ripetere qualcosa più volte non rende l’intervento verbale più efficace, ma lo riduce a noioso rumore di fondo. È bene partire dall’osservazione a distanza, che è già una forma di empatia, guardando nostro figlio mentre gioca o, al contrario, quando non sta facendo nulla di particolare. Un approccio, questo, che aiuta a capire cosa gli interessa e come si rapporta con gli altri».

Errori più comuni?

«La premessa è che anche i genitori imparano strada facendo e che, in questo momento storico, mettere al mondo un figlio in modo consapevole richiede coraggio. Detto questo, si ha ancora l’idea che educare significhi indurre i figli a fare qualcosa, come fossero una nostra appendice. Da questo approccio derivano vari scivoloni. Meglio puntare su poche regole ma chiare con i “no” del caso, perché la famiglia non può essere guidata dai figli, come fossero piccoli “re”».

Cosa esercita un peso insospettato nella comunicazione?

«A fare la differenza è anche il tono di voce che non deve essere monocorde, accusatorio né rassegnato in partenza. Evitiamo anche di scimmiottare il bambino parlando in modalità infantile. Scegliamo frasi brevi e semplici, ma senza gorgoglii o parole storpiate».

Nessun trattato sui massimi sistemi, dunque, quando ci tempestano di “perché”?

«Meglio puntare su esempi concreti. L’adulto, inoltre, deve anche sapere scegliere quando parlare evitando di farlo se è stanco o nervoso. Al contrario se i figli sono piccoli vanno accolti nei loro momenti di sfogo o di frustrazione senza bloccarli».

Per alcune famiglie le uscite con i figli sono fonte di stress...

«La chiave per la serenità, ad esempio durante le uscite al ristorante, non può essere concedere l’uso di telefonini o tablet ai più piccoli stroncando qualunque forma di comunicazione e quasi ipnotizzandoli. C’è chi teme di farli arrabbiare anche solo tentando, a un certo punto della serata, di riprendersi i dispositivi. Meglio portare album e matite invitando a fare il ritratto dei vari commensali giocando con l’immaginazione, qualità fondamentale anche per gli adulti, e entrando in relazione con gli altri».

Come aprire una breccia nei muri che tira su un adolescente? Spesso ci si limita a espressioni olofrastiche da “Svegliati” a “Tutto bene”: è una via da percorrere?

«Si deve partire da un rapporto di empatia e fiducia che poi aprirà al dialogo. Spesso un adolescente agisce d’impulso e un genitore deve aiutarlo a rileggere gli effetti delle sue azioni ma certi spazi personali vanno rispettati».

Invitare a rimettere a posto la propria stanza rischia di trasformarsi in scontro. Cosa ne pensa?

«Una volta assicurata l’igiene, bisogna rispettare il caos della camera di un adolescente che rappresenta anche il proprio mondo interiore. Anche i bambini, dopo aver giocato nella loro stanza, hanno il diritto di lasciare i balocchi dove vogliono. Per gli altri ambienti della casa, varranno invece regole diverse».

Passiamo al calvario dei compiti. Come affrontarlo?

«Anziché fare lo sceriffo, bisogna educare i bambini alla passione. Così si eviteranno tendenze depressive future e apatia. Nei casi più gravi è bene rivolgersi a un professionista oppure garantire esperienze fuori dal nucleo familiare. Chi non è tagliato per lo studio, infine, può qualificarsi in un mestiere dopo aver assolto all’obbligo formativo fino ai 16 anni. Studiare per accontentare i parenti fa spegnere qualsiasi potenzialità anziché vederla fiorire».

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