«La violenza contro le donne? Nel “Me Too” all’italiana c’è già una sentenza storica». Lo annuncia Sonia Alvisi, consigliera di Parità dell’Emilia-Romagna. Ma cosa è stato fatto finora per riconoscere e contrastare la mattanza sulle donne?«La premessa – risponde Alvisi - è che grazie anche all’Europa non mancano le norme a tutela delle vittime ma aprirsi è difficile per chiunque. Detto questo negli ultimi 10 anni si registra un aumento esponenziale delle denunce. Merito anche dei corsi di alta formazione in diritto antidiscriminatorio condotti con l’avvocatura in Emilia-Romagna e poi estesi al resto della penisola. Corsi che hanno fatto conoscere a molti legali l’ufficio della consigliera di parità istituito nel 1991».
Un caso che farà la storia del diritto?
«Quello che sarà presentato alla stampa domani (oggi, ndr) nella cornice romana di Palazzo Grazioli. Si tratta di una sentenza del giudice del lavoro di Parma su un caso collettivo di molestie sessuali che ha colpito giovani attrici che si erano iscritte a un corso di formazione teatrale (quindi propedeutico a un lavoro) finendo per denunciare il docente-regista con il supporto di Amleta, un’associazione di promozione sociale. Il corso finanziato dall’Emilia-Romagna vedeva la partecipazione di ragazze anche da altre regioni, poi divenute vittime di sistematiche e gravi molestie sessuali sia in occasione dei provini sia durante le lezioni. Peccato che fossero scaduti i 12 mesi per avviare il processo penale. Il caso, una sorta di “Me too”, è giunto alla mia attenzione alla fine della pandemia finché nel 2024 la sentenza è approdata in prima lettura e più di recente passata in giudicato. Una complessa attività istruttoria ha accertato le molestie accordando già a due delle vittime un risarcimento molto importante. Questa battaglia, che ho portato avanti nonostante episodi spiacevoli consumati nei miei confronti, sarà inserita in un testo specifico per l’avvocatura che presenteremo in Senato il 15 dicembre».
A suo avviso la società rischia di normalizzare la violenza?
«Per scongiurare questo scenario occorre organizzare corsi di informazione e formazione perché le norme hanno fatto passi da giganti ma di fatto manca una rivoluzione culturale. Basti pensare alla classica pacca sul sedere che in alcuni contesti continua a essere difesa come uno scherzo mentre, in caso di denuncia, risulta a tutti gli effetti un reato penale. Va poi ribadito che la responsabilità di ciò che accade in ambito professionale è del datore di lavoro a cui compete anche la formazione. Serve infine maggior protezione a chi fa segnalazioni istituendo canali sicuri che mantengano l’anonimato. Un cammino ancora lungo tant’è che l’Onu ha messo la parità di genere tra i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile da realizzare entro il 2030. Troppo spesso le donne che trovano la forza di denunciare non vengono credute, specie se giovani o separate ma demansionate o costrette a andarsene».
Dopo i passi avanti sul tema del consenso, resta da cambiare il linguaggio che minimizza, svia e nega?
«Purtroppo tutti abbiamo un elefante in casa che si chiama patriarcato. Alla primaria circolano ancora libri in cui si legge che “la mamma stira e il babbo guarda la tv”. Al contrario le donne devono poter aver fiducia nelle istituzioni, sentendosene rassicurate. Bisogna quindi insegnare un linguaggio corretto e scevro da sessismo e stereotipi, ma anche una comunicazione che, per le bambine. coltivi il senso di forza e autodeterminazione».