Rimini. L’immunologo Gorini, tra i padri del vaccino anti Covid, lascia la Romagna: “Vado all’estero, in Italia non si incoraggia la ricerca”

Fare il Pr nelle discoteche di Rimini apre le porte del mondo». Parola dell’immunologo, Giacomo Gorini, 34 anni e riminese doc. Dalla Romagna agli annali, questo giovane studioso è tra gli inventori del vaccino contro il Covid, ribattezzato Astrazeneca.
Gorini, come ci si sente a aver cambiato la storia?
«È stato un lavoro di squadra su progetti che son partiti quando ero ancora alla scuola primaria. Poi la pandemia ha imposto un cambio di passo e io mi son trovato al posto giusto nel momento giusto a fianco di illustri scienziati, non ho capito in quale proporzione di casualità e di merito. Come ci si sente? Quesiti filosofici a parte, ci si deve sentire pronti: è in momenti così che capiamo a cosa serve studiare. Mi piace molto incoraggiare i ragazzi a seguire le proprie ambizioni e a dare il meglio. Anch’io ho studiato con passione per fare qualcosa che mi piacesse ma poi arriva l’imponderabile, una pandemia mondiale, e spariglia ogni carta. Il tuo paese è chiuso, sei confinato dall’altra parte dell’oceano, i tuoi nonni sono spaventati ed ecco che puoi dare una mano, facendo la differenza in laboratorio».
Archiviata la pandemia, le vaccinazioni contro il Covid risultano in calo. Cosa ne pensa?
«C’è bisogno di maggior consapevolezza: il virus continua a far danni soprattutto sulle persone vulnerabili. Quest’anno ho rimandato le vaccinazioni contro influenza stagionale e Covid a causa degli impegni e mi sono ammalato, è stata una settimana molto tosta, nonostante la mia giovane età, ed ho imparato la lezione. Non farò più slittare una seduta e invito tutti ad aderire al più presto alle campagne vaccinali».
Debelleremo mai il Covid?
«Dobbiamo abituarci all’idea che il virus ce l’ha fatta. Ci aspetta una convivenza, anche se non facciamo più i conti con le situazioni drammatiche del 2020».
Da piccolo sognava di far l’inventore e ha realizzato un dispositivo. A cosa serve?
«Si tratta di un macchinario di nuova generazione che permette di fare esperimenti di laboratorio, come la coltura cellulare, anche nei paesi in via di sviluppo, quindi a risorse limitate. Costa poco ed è facilmente assemblabile e trasportabile. L’ho realizzato nel tempo libero, alla fine è scappato fuori un brevetto e c’è già qualcuno interessato, ma non posso svelare di più. Del resto non è l’unico progetto sul tavolo...».
Ovvero?
«Sto valutando dove ripartire per progettare farmaci di nuova generazione contro malattie croniche e oncologiche. A breve rientrerò nelle statistiche e fuggirò assieme al mio cervello. Purtroppo il terreno è più fertile fuori dall’Italia. Il nostro resta il Paese che forma meglio gli studenti ma non sa ancora incoraggiare le ricerche che cambiano il Pil (prodotto interne lordo)».
Non è la prima volta che fa i bagagli.
«Sono volato negli States dal 2014 al 2017, poi a Cambridge per un anno, a Oxford fino al 2021 e infine a Harvard sino all’anno successivo. Sono tornato per studiare ancora, con l’idea di applicare nel mio Paese quanto appreso. Avevo una gran voglia di restare ma adesso sono pronto».
Cosa comporta lasciare la Romagna per andare all’estero?
«Una grande solitudine: l’ho sofferta ma ho anche imparato molto e a lungo andare le ho permesso di indurirmi. Tornare a Rimini mi ha aiutato a smussare gli angoli ma imparare a cavarsela da soli rende anche più forti».
Essere romagnolo aiuta?
«Assolutamente sì. Da ragazzino facevo il Pr nelle discoteche e organizzavo feste, grazie alle dritte di Denis Fabbri, il mitico gestore di Altromondo, Peter Pan e Villa delle Rose. In sostanza ho sempre avuto un approccio sociale al lavoro: è fondamentale sapersi presentare, stabilire collaborazioni, interessarci di chi ci troviamo davanti, coinvolgendolo. Una volta trapiantato negli Stati Uniti, ho fatto scoprire la piada a tutti i miei colleghi americani».