Rimini. Intervista a Zaira Pari, 96 anni, co-fondatrice di Nomadelfia. «Una vita in fraternità secondo il Vangelo. Sono stata la mamma di trenta bambini»


Zaira Pari siede nella hall dell’hotel Palos di Viserbella. Ha un vestito di cotone leggero, azzurrino, che quasi si confonde con il tessuto del divanetto sul quale si è accomodata per riavvolgere il nastro della sua lunga vita. Novantasei anni che porta con fierezza sulle spalle, durante i quali si è spesa senza riserve donando amore e condividendo con altre persone una scelta esistenziale fatta da ragazza, della quale, quasi 80 anni dopo, si dice ancora fermamente convinta. Madre di vocazione di 30 figli, una quotidianità ispirata al Vangelo, nella fraternità e nella condivisione, con il popolo di Nomadelfia, dove vive tutt’ora, a Grosseto. «Viviamo in comunità, seguendo gli insegnamenti di Gesù, senza bisogno di prevaricare gli uni sugli altri. Il bisogno di affermare un diritto - dice Zaira - nasce solo se qualcun altro te lo nega».
Zaira, quando ha compiuto questa scelta di vita?
«Quando ho incontrato don Zeno Saltini io avevo 18 anni, lui era venuto a Torre Pedrera, dove, in una colonia, erano ospitate le persone che durante la guerra avevano perso tutto. Bambini orfani, donne sole, gente che non aveva più niente. Noi abitavamo vicino, così io e mio padre siamo andati ad aiutarli, a chiedere di cosa avessero bisogno. E lì l’ho conosciuto. Io mi stavo diplomando alle magistrali, avrei avuto gli esami a luglio. Don Zeno prese le mie mani nelle sue e mi disse che a luglio non li avrei passati, ma che mi avrebbero promossa a ottobre e mi chiese se volevo seguirlo, se volevo andare a insegnare ai suoi figli, a quella che ancora non si chiamava Nomadelfia, ma l’Opera Piccoli Apostoli. Andò proprio come disse lui: passai gli esami a ottobre e io, poco dopo, gli scrissi per dirgli che accettavo. E’ stato come se avessi avuto una visione della mia vita futura, nella certezza che sarei andata a stare bene, in un posto in cui mi sarei sentita a casa. E così è stato: anche io, con la penna rossa perché non avevo ancora raggiunto la maggiore età, che allora era a 21 anni, il 14 febbraio 1948 ho firmato la costituzione di Nomadelfia, divenendo co - fondatrice di un popolo civile che vive il Vangelo nella vita, in cui uno aiuta l’altro. Ci sorregge quel senso di gioia che si prova più nel dare che nel ricevere, quell’amore così soprannaturale che proviene solo dalla fede e che cancella il segno delle sofferenze vissute».
E così è iniziata la sua nuova vita...
«Sì, ho lasciato mio padre (mia madre era morta quando ero molto piccola), che ha fatto di tutto per convincermi a non partire. Ricordo che quando non riuscì a tornare a casa per Natale lui andò su tutte le furie. All’inizio, era il 1947, l’Opera era stabilita a Fossoli, vicino a Modena, in quello che fino a pochi anni prima era un campo di concentramento. I primi tempi facevo tutto quello di cui c’era bisogno, anche andare a raccogliere fondi, sostegni, le cose di prima necessità. Mancava tutto, l’Italia era in grande povertà dopo la guerra, e noi abbiamo vissuto con poche e semplici cose, come don Zeno stesso, che era di famiglia benestante e che si spogliò di tutto in un cambio di vita radicale. Lì, come ora a Nomadelfia, si viveva in gruppi familiari che collaborano tra di loro. E a 20 anni appena compiuti, l’8 marzo 1948, sono diventata mamma: mi hanno assegnato le prime otto bambine. Da un anno di età a nove, tutte provenienti da istituti romani. Don Zeno, durante la celebrazione della messa, ha consegnato ad ogni mamma la sua nidiata di figli, con le parole di Gesù: “Donna ecco tuo figlio”, “Figlio ecco tua madre”.
Ricordo che io e le mie bambine dormivamo tutte insieme in una baracca del campo. Io avevo unito due brande e mi stendevo in mezzo alle due bimbe più piccole.
Col passare degli anni ho avuto 30 bambini. Alcuni di loro mi chiamano ancora mamma, altri, diversi, invece non ci sono più. Il primo l’ho perso che aveva poco più di un anno, era il 1962. E’ stata una grande sofferenza. A uno di loro, nato nel 1963, invece, sono riuscita a dare il mio cognome perché l’ho adottato. Fa il camionista e mi chiama tre volte ogni settimana. Dico sempre che è l’uomo più generoso del mondo».
Come funzionava l’affidamento dei bambini?
«Io e le altre 11 ragazze, le Piccole apostole mamme, subito dopo la firma della costituzione siamo andate a Roma, a cercare i bambini che sarebbero poi divenuti i nostri figli. In Italia, allora, c’erano tanti fanciulli rimasti soli, radunati negli istituti, in attesa di trovare una famiglia che li potesse accogliere. Come il brefotrofio di Villa Pamphili, dove si trovavano i figli illegittimi, i bambini abbandonati. Nella mia mente sono ancora presenti quei piccoli volti tristi, senza vitalità. Ricordo quei grandi stanzoni, c’erano tanti bambini deposti in piccole culle bianche allineate in lunghe file, sulle quali scendeva dall’alto una reticella a maglie larghe posta a protezione perché non cadessero. Nel vedere tutte noi, i bambini cercavano di allungare le braccine per essere presi in braccio, ma quelle braccine invocanti restavano impigliate nella rete.
Naturalmente, una parte di quei bambini che poi portammo con noi a Carpi, all’inizio voleva scappare, ma poi si accorgevano che potevano giocare, che facevamo teatro, laboratori, tante attività tutti insieme, e alla fine si affezionavano. Naturalmente, una volta cresciuti, sono stati liberi di andarsene. Chiunque, ancora oggi, può decidere in qualunque momento di lasciare Nomadelfia senza nemmeno dare spiegazione».
Qual è stato uno dei momenti più difficili?
«Nel ‘52 hanno tentato di distruggere Nomadelfia, la Chiesa aveva chiesto a Don Zeno di lasciare ed è stato tutto chiuso, adducendo che la congregazione era in fallimento, e tutti i bambini sono stati portati via. Ma io non ho mollato, e tutti insieme, piano piano, siamo riusciti a riprendere i nostri figli e ci siamo ricostituiti. Ci siamo stabiliti a Grosseto, dove ha sede attualmente la Città di Nomadelfia: quei terreni non sono stati sottratti a don Zeno perché erano di proprietà della famiglia Pirelli, e da lì siamo ripartiti. Ora siamo circa 300 persone. A Fossoli, invece, eravamo 1.180».
E oggi, a 96 anni, qual è la sua quotidianità?
«Vivo in un gruppo familiare, ma tutti gli anni vengo qui in vacanza per ritrovare la mia famiglia (l’hotel Palos è gestito da parenti di Zaira, ndr) e respirare l’aria di mare. Fa bene alla salute e mi piace ritrovare le mie radici. A Nomadelfia scrivo al computer, mando le mail. Sì, perché ho iniziato a usare il pc nell’86 per trascrivere gli scritti di don Zeno, una vasta eredità di meditazioni “a tu per tu” con Gesù, che vertono sull’importanza di santificare tutte le espressioni della vita umana».
Che consiglio darebbe a un ragazzo o una ragazza di oggi?
«Oggi l’umanità è più complessa, più egocentrica. Ma io faccio sempre questa riflessione: se gli altri pensassero agli altri, non ci sarebbe bisogno di combattere, di lottare per affermarsi. Ma io sono convinta, nonostante tutto, di non avere niente da insegnare a nessuno. A quasi 96 anni, però, la certezza della mia scelta è sempre più forte. Nonostante la grande povertà, ho la sensazione di aver vissuto la più grande ricchezza che vivendo sulla terra si possa raggiungere».