Rimini, il virologo Giacomo Gorini: “Di fronte a un’epidemia di aviaria siamo impreparati, ci sono pochi vaccini”

Rimini

«Un’epidemia di aviaria? Se esplode l’Italia si troverà a aspettare i vaccini col contagocce da altri Paesi». Detto fatto. Giacomo Gorini, virologo riminese tra i padri di Astrazeneca, il vaccino contro il Covid, aveva prospettato che l’epidemia del 2025 sarebbe stata l’influenza aviaria. Al momento sta conducendo uno studio presso l’università di Oxford che mira all’identificazione di nuovi farmaci contro tumori, malattie croniche e non solo. Una progettazione, conferma, che trova il plauso degli investitori e lo rende felice di esprimere la sua creatività mettendo a segno qualcosa di innovativo per aiutare gli altri.

Dottor Gorini, cosa si intende per influenza aviaria?

«Partiamo dall’abc. Dell’influenza esistono sia ceppi umani che animali come ad esempio quelli degli uccelli acquatici (papere, anatre e oche) che determinano l’aviaria o dei suini da cui si diffonde l’influenza suina. Più in generale il salto di specie è raro, ma a differenza di altri virus, in cui l’informazione genetica è contenuta in un solo lineamento di Dna o Rna, in quelli influenzali questa è contenuta in otto frammenti diversi. Se dunque una cellula è infettata in contemporanea da un virus animale e da uno umano, può emergere un nuovo virus che ha informazioni genetiche mescolate, dato che gli otto frammenti possono provenire a caso da un virus o dall’altro. Il che può costituire un pericolo, se emerge un virus chimerico in grado di infettare gli esseri umani, portando componenti aviarie che il nostro sistema immunitario non ha mai incontrato. Potrebbe cioè avere il tempo di causare danni all’organismo prima che la risposta immunitaria lo controlli, o di diffondersi più facilmente».

Di recente si è verificato un focolaio di influenza aviaria a Forlì, in un’area di confine con Ravenna, che ha causato l’abbattimento di 150 polli da carne e il sequestro dell’impianto. Anche Rimini è a rischio?

«Le precauzioni sono le solite: stare alla larga dai volatili selvatici, specie se appaiono malati o sofferenti, cuocere le carni e le uova e evitare di consumare latte crudo, che può rivelarsi come eventuale vettore di diffusione del virus, preferendo quello pastorizzato».

Passiamo agli allevamenti intensivi. Secondo diversi esperti, presentano fattori a rischio quali l’alta densità dei capi, l’uso e (talvolta) la conseguente resistenza agli antibiotici, condizioni igieniche discutibili e stress a cui spesso sono sottoposti gli animali. Oltretutto avviene spesso una selezione genetica che renderebbe i capi più deboli. Ci sono rischi effettivi?

«I poli avicoli intensivi sono controllati, ma resta l’auspicio che gli allevatori non abbassino mai la guardia. Di solito i contagi più frequenti si registrano però in ambienti dove non viene rispettata la distanza tra esseri umani e uccelli. Al momento la preoccupazione di contenere l’epidemia compete agli enti sanitari e a chi è coinvolto negli allevamenti. Tutti gli altri possono, tuttavia, fare scelte di buon senso».

Se scoppiasse un’epidemia di aviaria, in Italia saremmo pronti a contrastarla?

«Si potrebbe avere verosimilmente una situazione simile a quella del Covid che nessuno di noi vuole. L’Italia è stata pigra e non si è adoperata per la costruzione di centri di rapida risposta pandemica che possano sviluppare vaccini, quindi probabilmente ci troveremmo ancora una volta ad aspettare le dosi in arrivo con il contagocce da altre nazioni. Mai dire mai, ma per fortuna ancora è molto improbabile che si torni ad una situazione simile».

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