Rimini. Il ristoratore fuggito dai missili in Israele: “E’ stata un’odissea”

Rimini

«Da Israele a Rimini, così sono scampato ai bombardamenti». Tre giorni e mezzo e quattro aerei per tornare a casa, nella sua Romagna. È questa la rocambolesca avventura vissuta nei giorni scorsi da Riccardo Bianchini, 62enne titolare del ristorante Artrov .

Bianchini, quando e perché si è recato in Israele?

«In passato, per motivi di lavoro, ho vissuto per diversi anni in Medio Oriente dove ho mantenuto legami di amicizia e stima verso varie aziende e persone, sia musulmane che ebree. Quanto a Israele, è un Paese che ho visitato spesso. Stavolta vi sono tornato per far sbarcare il progetto di una start up, che in parte ha già preso corpo, in Romagna. Sono partiti dalle rinnovabili per approdare al settore alimentare, inteso a 360 gradi. Una delle persone coinvolte ha vissuto tre anni in Piemonte come alunna di Carlo Petrini di Slow food. Ci siamo conosciuti per confrontarci e valutare il proseguo della progettazione assieme alla loro industria ittica».

All’inizio quale scenario ha trovato?

«Turismo e economia stanno subendo una battuta d’arresto visto il conflitto in corso ma l’accoglienza che mi è stata riservata, in modo particolare da due amici, l’uno israeliano e l’altro palestinese, è stata ricca di premure. C’è stato persino il margine per qualche sana rivalità in campo gastronomico, riguardo all’hummus (crema a base di ceci, tipica della cucina mediorientale, ndr). Ho affermato infatti che a una mia carissima amica, la riminese Tiziana Cogoni, riusciva meglio che a loro. Da lì è nata una sfida tra Italia, Palestina e Israele tra risate e promesse di trasferire la gara all’Artrov. Scherzavamo anche sulla location della storica locanda che il mio collega israeliano vanta a Gerusalemme, ossia la settima stazione della via Crucis, dove Gesù si fermò per riposare. “Bella leggenda – lo stuzzicavo - a livello di marketing è vincente”. Poi l’imponderabile. Sono arrivato il 9 giugno ma sono rimasto solo 8 dei 18 giorni preventivati».

Quando è avvenuto il primo raid aereo?

«Era il 13 giugno. All’inizio sembrava tutto surreale ma sul cellulare è arrivato un messaggio dal sistema di sicurezza israeliano che ci spronava a correre ai rifugi. Per un attimo ho pensato a un brutto scherzo ma poi mi sono ritrovato al sicuro assieme ai dipendenti dell’hotel, dove alloggiavo, fra cittadini di origine austriaca, cinese, tedesca e francese. Parlare ci ha aiutato a serbare la lucidità. Ero stato appena ricevuto dal cardinal Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, e pregare ha fatto la differenza. Non mi sono mai sentito abbandonato però: la Farnesina è sempre rimasta in contatto con noi. E c’è chi mi ha detto: “Lei è fortunato perché è italiano, di sicuro la riporteranno a casa”».

Può raccontarci il viaggio verso Rimini?

«Sono rincasato, martedì notte, e il primo pensiero è stato avvisare la segreteria del cardinale e la Farnesina perché mi cancellasse dalla lista delle persone in viaggio. Poi è stato il momento degli abbracci e quando finalmente ho rivisto mia moglie mi ha sussurrato tra le lacrime: “Sapevo che saresti tornato”. Tornare però è stata un’impresa. I voli erano cancellati e i porti bloccati, proprio come le ferrovie. Lo spazio aereo su parecchi Stati, come Oman, Bahrein e Arabia Saudita, risultava off limits mentre i voli per l’Europa erano prenotati per almeno una settimana. Un caos comprensibile perché, solo considerando gli italiani che vivono in Terra Santa, parliamo di 18mila persone. Fortuna ha voluto che un amico imprenditore mi abbia dato dritte precise poi confermate dalla Farnesina. Si trattava di individuare i varchi concessi e di sapere in quali fasce orarie venissero aperti. Dopodiché a bordo di un taxi sono arrivato al confine dove ho incontrato altre persone nelle mie stesse condizioni fra cui una palestinese, residente in Israele, che ha rincuorato tutti sui tempi di attesa... biblici. Infine l’agognato imbarco attraversando Amman, Cipro, Polonia e Italia. Ho preso 4 aerei per un viaggio che è durato tre giorni e mezzo anziché una manciata di ore».

Come ha vissuto quest’odissea la sua famiglia?

«Li ho tranquillizzati subito. Sapevo di poter contare sulla professionalità dei referenti della Farnesina, sul sostegno del cardinale e su tanti amici sia israeliani che palestinesi».

Ora quale messaggio vorrebbe lanciare?

«La convivenza tra popoli e culture diverse è possibile. La nostra casa è il mondo. Se è fattibile creare oasi nel deserto, allora - a maggior ragione - anche far fiorire la pace è un traguardo possibile».

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