Rimini, il marito accusato di omicidio: "Ho ucciso Luisa per amore"

Rimini

Il ricordo di Luisa lo accompagna ogni giorno, in ogni angolo della casa. «A volte apro l’armadio della camera da letto, con tutte le sue cose, solo per respirare il suo odore. L’odore della mia Lulù, l’amore della mia vita». Filippo Maini, 75 anni, infermiere in pensione, si circonda delle foto della moglie morta, dei souvenir raccolti durante i viaggi, perfino degli scontrini con il bigliettino del ristorante degli anniversari di nozze. È un vedovo con le lacrime agli occhi, come tanti. Solo che lui la moglie l’ha uccisa, un anno fa, il 22 giugno 2020. «Un atto d’amore», sostiene ancora oggi. Lo scrisse anche nel biglietto d’addio. I soccorritori lo ritrovarono sul letto nuziale, accanto al cadavere della donna, con due sacchetti di plastica in testa e imbottito di farmaci. Ma vivo. «Dovevo morire anche io, è questa la mia colpa. Ormai dopo un anno a quest’ora nessuno si sarebbe più ricordato di me: a me della vita senza di lei non importa più niente e neanche del fatto che rischio l’ergastolo, e lo dico con tutto il rispetto per i giudici e per il mio difensore, avvocato Alessandro Sarti. La mia pena è essere sopravvissuto a Luisa. Ho fatto quello che ho fatto perché me lo ha chiesto lei». La moglie con la quale ha trascorso 53 anni di matrimonio soffriva di Alzheimer. Una forma “medio-grave” che le stava facendo perdere rapidamente le sue facoltà. Le cose a quel punto potevano solo andare di male in peggio. «Ha presente la foto di noi due in spiaggia? (pubblicata in prima pagina ndr) È stata scattata appena una settimana prima... Siamo stati felici insieme fino all’ultimo, abbiamo trascorso una vita abbracciati o tenendoci per mano. L’ossessione di Luisa, anche prima di ammalarsi, era non fare la fine di sua madre, morta a più di novanta anni dopo venti anni di Alzheimer. Non voleva affrontare quel calvario. Era insistente. L’ultima sera lei mi ha ripetuto, come tante altre volte, Basta Filippo, facciamola finita. Eravamo andati a letto presto, ne abbiamo parlato fino a mezzanotte. Dicono che non fosse più in grado di dare il consenso? Non è così, aveva momenti di lucidità. Avevamo avuto tutto quello che potevamo chiedere alla vita. Quello era l’ultimo momento in cui ancora ci volevamo bene e ancora potevamo riconoscerci. Mentre se ne andava, mi accarezzava i capelli».

Resta il fatto che Luisa non c’è più e lei è ancora qui con una parvenza di serenità.

«Questa parvenza di serenità è dovuta anche a nove farmaci che assumo ogni giorno, il tentato suicidio mi ha lasciato dei postumi certificati dal neurologo. Come vede vivo di ricordi, circondato dagli oggetti appartenuti a Luisa dalle fotografie, dalle mappe dei posti del mondo che abbiamo visitato assieme».

La fragilità della malattia pone sicuramente il problema della dignità della persona, ma non le viene il dubbio che la sua scelta di fare morire sua moglie sia stata dettata dall’egoismo?

«Sono un infermiere e mi sarei preso cura di lei fino alla fine se quella fosse stata la sua volontà. Una richiesta ripetuta, pressante, insistente. Ho vissuto il mestiere come una missione e non mi sarebbe costato sacrificio. In genere era lei in casa a prendere le decisioni, era una donna con due p.… così: mandava avanti un albergo, parlava tre lingue, in confronto io ero un bambino anche se coetanei e cresciuti insieme. Lei aveva delle proprietà che sono sempre rimaste le sue: ho subito rinunciato all’eredità. Custodisco la sua memoria, in casa non ho toccato niente, le sue cose sono ancora in bagno e nei cassetti così come le aveva lasciate lei. Un giorno sì e un giorno no vado al cimitero. Le parlo ancora, proprio come facevamo prima. La mia vita è finita quella notte con lei, ora è un rotolarsi giorno dopo giorno».

Perché continuare a vivere?

«Per una promessa fatta a mio figlio. Uscito dall’ospedale, mi ha chiesto di andare avanti. Mi ha accolto ai domiciliari (otto mesi, Maini è libero da gennaio ndr), sia lui sia sua moglie, circondandomi di amore e di attenzioni. Gli ho raccontato tutto, ho trovato la sua comprensione. La sorella ha reagito diversamente, in un anno l’ho sentita due volte al telefono, e quando ho cercato di incontrarla sul lavoro, mi ha fatto capire che non se la sente. Lo capisco, ci sta. Eppure, adesso vivo per i miei figli, le mie nipoti. Una, in particolare, mi viene a trovare regolarmente. Per un infermiere può sembrare strano non riuscire a morire? Vero, ma io ci ho provato. Ho assunto farmaci, alcol e mi sono infilato due sacchetti di plastica sulla testa. Sul lavoro, una volta, avevo soccorso un mio conoscente che l’aveva fatta finita così e mi era rimasto impresso. Forse, inconsapevolmente, in uno spasmo dovuto all’istinto di sopravvivenza ho allentato ed è entrato un filino d’aria. Esserle sopravvissuto è, ripeto, la mia pena».

Come coppia avete vissuto la claustrofobia del primo lockdown amplificata dall’aggravarsi della patologia e dall’isolamento, un tunnel di depressione sfociato in tragedia. Oggi lo rifarebbe?

«L’ho fatto per lei, per amore. Era una sua richiesta: se me lo chiedesse, lo rifarei».

E la procura continua a indagare

La morte di Luisa Bernardini, risale al 22 giugno 2020. Il marito sopravvisse al tentativo di suicidio. Filippo Maini, uomo metodico, aveva lasciato un dettagliato biglietto di addio. «Era diventata una vita di inferno, in un momento di lucidità ha deciso, anche lei, di farla finita. Grazie. Questo è un atto d’amore». Nelle prime fasi della malattia la donna aveva detto più volte di non volere morire incosciente in un istituto come sua madre, ma nel proprio letto. Secondo il marito anche l’ultima sera gli avrebbe ribadito la stessa intenzione. Per il consulente della difesa è una ricostruzione credibile: la signora poteva prestare validamente il consenso alla propria morte, mentre il marito è da considerarsi parzialmente incapace di intendere e di volere. I consulenti dell’accusa, al contrario, sostengono che lei non era più in condizioni di prestare un consenso. Per il pm Luca Bertuzzi non si trattò di un aiuto al suicidio, né di uccisione di persona consenziente, ma di omicidio volontario aggravato. E’ stata chiesta una proroga di indagine. l’accusa - da Corte d’assise - è omicidio volontario aggravato.

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