Rimini. "Con Sanpa su Netflix hanno voluto solo fare audience"

«Posso garantire che non è San Patrignano quella descritta, sono stati messi in evidenza degli aspetti per dimostrare un’idea preconcetta o per incrementare una curiosità morbosa, con il chiaro unico intento di fare audience». Antonio Boschini non è arrabbiato, più che altro deluso, forse del fatto che San Patrignano si è fidata ad aprire le porte alla produzione Netflix, una docu-serie che negli intenti vuole raccontare la nascita della comunità terapeutica «ma che in realtà parla solo di Vincenzo Muccioli, ne evidenzia solo gli aspetti del “personaggio” e punta tutto sui fatti eclatanti, sui processi, creando nello spettatore la convinzione che quello delle “catene” fosse un metodo di recupero», aggiunge Boschini. Lui è l’unico protagonista di “Sanpa” che è ancora in comunità, oggi come responsabile terapeutico. Ed è l’unico che parla dall’interno, gli altri intervistati sono ormai fuori da tempo dalla struttura sulle colline di Coriano.

Entrato negli anni ’80 è stato con il fondatore di San Patrignano dall’inizio «e vi assicuro Vincenzo non era quel personaggio istrionico e guascone descritto nella serie, questo mi ha molto infastidito, lui era la persona che quando stavo male mi faceva intravedere un futuro, riusciva a farmi uscire dalla crisi, a darmi una visione positiva del mondo e della vita».

«La comunità in buona fede ha creduto che questo documentario potesse essere un’occasione importante per fare conoscere Sanpa, ingenuamente si è creduto che un documentario potesse essere obiettivo. Con lo stesso intento ho dato la mia disponibilità ad essere intervistato - prosegue Boschini - ma non ci hanno mai permesso di vedere il montato. Poteva venire fuori qualcosa di interessante, anche se critico, del resto delle cose sono avvenute, ma è proprio il montaggio che ha falsato il tutto, la sequenza e il collegamento tra le interviste».

Boschini ammette che la prima puntata è stata fatta bene, con un ritratto veritiero di quegli anni «io c’ero lo posso dire. Sto guardando la serie insieme ai miei figli, stasera (ieri per chi legge, ndr) guarderò la quarta puntata. Ma quello che ho visto mi ha fatto capire che l’intento non è quello di narrare la realtà. E chi l’ha vista tutta mi ha detto che è un crescendo...».

Eppure Boschini era convinto che la sua partecipazione potesse essere un valido contributo a raccontare una realtà da dentro. «Mi sono detto, se partecipo non voglio essere come in tribunale a difendere Vincenzo Muccioli e quindi ho raccontato la verità, nella consapevolezza di avere vissuto tutto. Ero convinto che dicendo quello che penso non potevo fare alcun danno, perché anche se errori sono stati fatti quel prodotto televisivo vuole dimostrare che le “catene”, le chiusure erano un metodo e questo è profondamente falso. Come poteva Vincenzo tenere in comunità 1.800 persone con la forza?».

E rispetto a tutto quanto si vede nella docu-serie, le testimonianze di violenza, di reclusione forzata, le foto delle catene, i processi, così come il sostegno di migliaia di persone a Muccioli, Boschini vuole rispondere con i fatti: «In questo posto continua a venire moltissima gente che qui cambia e cresce, matura, esce dalla dipendenza, lavora e studia, e qui superano i problemi».

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