Rimini. Casa all’asta e stipendio pignorato. La prof: “Incubo in tribunale finito dopo 11 anni”

Rimini

Cacciata di casa e condannata a pagare 40mila euro di spese legali “coperte” dal pignoramento dello stipendio chiesto e ottenuto dai due fratelli maggiori, ricorre in appello a Bologna che ribalta la decisione della giudice Maura Mancini perché è una sentenza sbagliata, “ultra petita”. Tradotto: c’è un un vizio nella decisione del giudice che ha accordato alla parte che ha chiesto la sua mediazione più di quanto abbia domandato. Undici anni, tanto è durato il vero e proprio calvario di D.P., giovane professoressa, ritrovatasi da un giorno all’altro in mezzo ad una strada, a vivere in un angusto residence di cui spesso ha faticato a pagare la pigione essendo lo stipendio pignorato la sua unica entrata finanziaria.

La storia

Tutto inizia alla morte della madre, quando i due fratelli di una decina di anni più grandi di lei, la trascinano in tribunale accusandola di aver boicottato la vendita della casa di famiglia «dove io continuavo a vivere - spiega la professoressa - come disposto dal giudice tutelare nominato per mia madre prima che morisse». D.P. questa battaglia la combatte da sola: il papà era morto quando aveva appena 4 anni ed “i germani”, come definisce i fratelli, erano già in età adolescenziale.

La causa intentata nel 2012 si trascina 7 anni. Il Tribunale di Rimini manda la casa all’asta e con la sentenza di primo grado la giudice le addebita 40mila euro di spese legali oltre a toglierle la sua parte di abitazione e così anche la possibilità di vivere una vita dignitosa: lo stipendio pignorato, «era già decurtato dei quinti – ricorda la professoressa – utilizzati per pagare i precedenti avvocati: subito dopo la morte di mia madre mi sono trovata a difendermi dalle vessazioni di chi non ha saputo dimostrarsi famiglia».

D.P. però non si è arresa e con l’avvocato Carmine Paul Alexander Tedesco ha presentato l’appello che le ha riconsegnato una vita serena e restituito il sorriso dopo oltre 11 anni d’inferno: uno dei 4 milioni di casi di malagiustizia italiana certificati da Eurispes negli ultimi 50 anni.

Professoressa, si può parlare di vera giustizia per un cittadino, con tempi così lunghi?

«Gli effetti della sentenza della giudice mi avevano travolto come uno tsunami e ammetto che è stato durissimo dover aspettare altri quattro anni per avere giustizia. Ho dovuto fare ricorso a tutta la mia forza interiore per non soccombere sotto il peso di una decisione che la corte d’Appello ha ritenuto erronea; e che aveva avuto effetti disastrosi sulla mia vita, laddove il destino mi aveva già provata, privandomi dell’affetto dell’unico genitore che sostanzialmente avevo conosciuto, costringendomi anche a difendermi dalle vessazioni dei miei fratelli. Davvero difficilissimo non cedere alla rabbia e alla frustrazione, per quanto subito».

Crede ancora nella giustizia?

«Assolutamente sì, ma credo che il sistema italiano debba essere riformato, prevedendo in automatico un sistema di risarcimento nei confronti dei cittadini che si sono ritrovati a subire errori giudiziari, i quali il più delle volte, si concretizzano come catastrofi nella quotidianità della vita delle persone, che non sempre hanno chi possa aiutarle, come ha fatto con me l’avvocato Carmine Paul Alexander Tedesco. Risarcimenti che a mio avviso dovrebbero essere pagati dai giudici di cui i vari gradi di giudizio hanno attestato lo sbaglio, senza che il cittadino debba fare ulteriori procedure. Credo che in questo modo i magistrati possano diventare più attenti, perché la giustizia non si trasformi in “malagiustizia”; ed evitare, che una vita venga distrutta».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui