«Marco con la cocaina non aveva limiti»

Rimini

RIMINI. «Quando decideva di fare uso di cocaina non aveva limiti». Cosi, Ferdinando detto Paolo, il padre di Marco Pantani, che, in uno stato di paterna disperazione, si sfoga davanti agli investigatori della Squadra mobile negli uffici della procura di Rimini all’indomani della tragica scoperta del cadavere del figlio. Dal verbale, mai pubblicato nella versione pressoché integrale, risulta come anche i familiari fossero a conoscenza dell'uso pesantissimo della cocaina dello scomparso Pirata, che manteneva fornitori in tre province presso i quali faceva ricorrenti acquisti da 10mila euro alla volta. La polvere veniva sniffata, fumata, e - sempre nelle parole del padre - consumata «smoderatamente, in grosse quantità». E quando lo faceva «si chiudeva da qualche parte». Papà Paolo, come procuratore, aveva accesso ai movimenti bancari del figlio e quello era uno dei sistemi per tenerlo sotto controllo, ma al contrario di quanto si disse, la famiglia non aveva alcuna possibilità di frenare quella costante emorragia. Quasi insignificante rispetto al patrimonio accumulato attraverso guadagni milionari, ma dolorosa e preoccupante per quanto c’era dietro: il bisogno di procurarsi cocaina in dosi crescenti. Invitato a ricordare particolari utili alle indagini ancora allo stato embrionale, Paolo accenna ai problemi personali del figlio, legati alla «gente che lo aveva distrutto nel mondo del ciclismo» e ai fatti di Madonna di Campiglio. «Ho discusso con lui, ma era ostinato, pensava che la soluzione fosse la cocaina». I genitori spiavano i contatti del figlio che, a volte, chiamava gli spacciatori anche in presenza dei genitori utilizzando un gergo neppure troppo velato: «Che musica avete?». Nelle parole del padre emerge un ritratto semplice e umano di una famiglia che disperatamente ha cercato di evitare al figlio una fine seriamente temuta già da tempo. Non accenna a sospetti, inimicizie, minacce, complotti. Né solleva interrogativi. Paolo sembra attribuire la morte del figlio alla sua autodistruttiva dipendenza dalla droga. Quel giorno non era stato ancora reso noto il responso dell’autopsia.

«Sono a conoscenza del fatto che il giorno 26 gennaio 2004 Marco si recò a Cesenatico per prendere le valigie e ritornare a Milano nell’abitazione della manager dove alloggiava da parecchio tempo. Ho constatato, facendo accertamenti sul conto corrente bancario intestato a Marco e sul quale io opero in qualità di procuratore che vi fu un prelievo in contanti dell’importo di 12mila euro, devo dire che Marco è titolare anche di un altro conto. Dal controllo del suo cellulare (i genitori avevano il telefonino dal 31 gennaio, lui ne era privo ndr), che oggi vi ho consegnato, mia moglie ha potuto verificare che proprio il giorno 26 gennaio Marco ha effettuato una telefonata a un certo L... (il padre fa il cognome di un commerciante cesenate, amico di Marco, perché così diceva la rubrica, in realtà il numero è risultato essere quello di Fabio Miradossa ndr). Mia moglie mi disse che quello doveva essere uno dei fornitori di cocaina di Marco. Se non ricordo male ci fu una telefonata con lo sconosciuto anche il giorno prima. C’erano delle persone che Marco chiamava spesso rivolgendosi loro con frasi del tipo Che musica avete? E altre di tenore simile con le quali aveva sicuramente dei contatti per l’acquisto di cocaina, sostanza di cui ha cominciato a fare uso dopo i fatti di Madonna di Campiglio. Inizialmente Marco la sniffava, poi dopo un anno e mezzo ha cominciato anche a fumarla, io me ne sono accorto perché faceva queste bottiglie strane, con un foro da una parte e la carta stagnola sopra, io ho discusso dei suoi problemi con Marco, ma lui era ostinato, pensava di risolvere i suoi problemi con la cocaina. Mia moglie e io abbiamo cercato di risoverli in tutti i modi, ultimamente anche rivolgendoci alla comunità di San Patrignano. Marco era arrabbiato con la gente che lo aveva distrutto nel mondo del ciclismo. L’ultima volta che mia moglie e io abbiamo visto Marco è stato a Milano, a fine gennaio. Un sabato. E in quell’occasione abbiamo litigato e mia moglie è anche svenuta. Marco se ne andò senza i bagagli e senza il cellulare che mi ritrovai in mano a seguito del litigio che avevo avuto con mio figlio. Marco era già stato a Rimini un mese prima in un altro albergo e anche lì vi erano stati dei problemi come meglio vi potrà riferire il dottor Greco. Qualche giorno dopo, verso i primi di gennaio, Marco telefonò a una ragazza russa che venne a casa nostra e in quell’occasione sono usciti insieme quasi certamente per fare un acquisto di cocaina, dopo un’oretta sono tornati, hanno trascorso la notte assieme e lei se n’è andata verso le 7 del mattino, credo che nel corso della nottata Marco avesse fatto uso di stupefacenti, in minime quantità, mentre il giorno successivo posso dire che Marco ne ha fatto un uso eccessivo. Alcuni giorni dopo, di notte, quella donna è tornata: ho avvisato mia moglie ed è nata una piccola lite a seguito della quale sono intervenuti i carabinieri di Cesenatico, ma al loro arrivo la ragazza si era già allontanata. A quanto mi risulta questa donna è legata a un italiano, uno con il codino, con il quale mia moglie ha scambiato una telefonata, trovando il numero sul cellulare di Marco. Mio figlio aveva contatti con i fornitori nelle province di Rimini, Forlì e Ravenna, mio figlio faceva grossi prelievi di contanti, dagli 8mila ai 10mila euro per fare gli acquisti di cocaina. Io escludo che mio figlio volesse togliersi la vita (un’ipotesi che l’inchiesta della polizia riminese non solo non prese mai in considerazione, ma addirittura escluse decisamente: con i farmaci avrebbe potuto farlo direttamente ndr). Lui era così, quando decideva di fare uso di cocaina non aveva limiti, si chiudeva da qualche parte e la consumava smodatamente, in grosse quantità».

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