Mariapia Galanti come Desirée? Tante ombre, nessuna risposta. A Rimini inchiesta verso l'archiviazione

Rimini

RIMINI. Quante Desirée, vittime di disagi adolescenziali, finiscono umiliate e offese sotto i nostri occhi? Quanti luoghi degradati sono frequentati da sbandati senza scrupoli e possono trasformarsi in patiboli? Non c’è bisogno, purtroppo, di andare lontano.

Se per la ragazza di Latina violentata e uccisa a Roma si è scoperta la verità e c’è una ragionevole possibilità di avere almeno giustizia, per Mariapia Galanti, la diciannovenne misanese trovata morta poco più di due anni fa in un container della stazione ferroviaria di Santarcangelo non ci sono state risposte.

Nonostante l’impegno, penalizzati dalla tardiva scoperta del cadavere che non ha permesso di accertare neppure le cause della morte, gli investigatori si avviano a chiedere l’archiviazione dell’inchiesta aperta per “morte come conseguenza di altro reato”. Restano molti dubbi legati al ruolo dei nordafricani che le ruotavano attorno, alcuni dei quali mai identificati anche perché spariti in tutta fretta dalla circolazione, e il “profilo” genetico di uno sconosciuto. Anche se prima o poi dovesse essere identificato difficilmente potrebbe essere accusato di qualcosa. Due certezze lasciano, però, ipotizzare gli scenari peggiori: Mariapia non è deceduta per cause naturali e non era da sola nel container da cantiere, ai lati del binario nella zona dello scalo merci, in cui fu trovata morta il 25 ottobre 2016. «L’avanzato stato di decomposizione del cadavere - scrissero gli specialisti della Scientifica - l’assenza di cute nella regione anteriore del collo, nonché l’assenza dell’osso ioide nella sua sede anatomica rende comunque impossibile identificare lesività di rilevanza medico legale». Come dire: troppo tardi per vedere eventuali segni di strangolamento, strozzamento o soffocamento. Neppure le successive analisi sui tessuti hanno fornito risposte su possibili abusi sessuali e sul ruolo della droga.

L’ex fidanzato

La ragazza assumeva l’eroina, fumandola, che otteneva da spacciatori nordafricani. Un marocchino nel corso dell’inchiesta si è fatto avanti qualificandosi come «ex fidanzato». Ha raccontato di averla accompagnata in ospedale a Rimini l’1 settembre per un dolore al polpaccio. Due sere prima Mariapia era stata identificata da carabinieri e polizia municipale all’interno di un albergo in disuso, rifugio di clandestini e spacciatori.

Il 3 settembre, infine, un giudice di pace aveva notato la diciannovenne in difficoltà lungo viale Tripoli e aveva sollecitato l’intervento del 118. Trasportata in ambulanza al pronto soccorso, lei aveva rifiutato di sottoporsi a una visita più approfondita. In preda a uno stato d’ansia, forse indotto dall’astinenza, si era limitata a chiedere inutilmente la somministrazione di un sedativo: non poteva esserle prescritto. Davvero non c’era modo di salvarla?

Il giorno dopo, 4 settembre 2016, l’ultima telefonata alla madre. «Sto bene, tranquilli». Poi più niente. Con sé non aveva neppure un cellulare. Verosimilmente la ragazza quella sera ricorse a un riparo di fortuna in cui non era mai stata prima, ma che era ben noto al suo o ai suoi ultimi accompagnatori: nordafricani incontrati a Rimini nella zona della stazione. Se il corpo fosse stato ritrovato nel giorno della morte presunta (5 settembre) questa sarebbe un’altra storia. Un’altra Desirée, appunto.

Cinquanta giorni dopo però, della ragazza dagli occhioni da bambina, resta poco. E quando non è un cadavere a “parlare”, non c’è speranza che a chiarire il mistero siano i vigliacchi che l’hanno portata e lasciata lì. Distesa su un materasso, a faccia in giù, senza scarpe, e con attorno una incongrua cintura da uomo che mai e poi mai, visto la taglia, avrebbe potuto indossare. Se un giorno, per una qualsiasi circostanza casuale, si riuscirà ad attribuire un nome al Dna maschile isolato dalla polizia, quel fascicolo che adesso si chiude sarà comunque riaperto. Il Pm Paolo Gengarelli e la Squadra mobile, c’è da giurarci, non ci penseranno due volte.

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