«Violentata cinquanta anni fa, ma le mie sofferenze non sono finite»

Rimini

RIMINI. Era una ragazza di campagna diciottenne “assunta”, alla fine degli anni Sessanta, come governante in una casa di «signoroni». Non avrebbe mai potuto immaginare che il suo datore di lavoro, un facoltoso professionista sposato e dal doppio dei suoi anni, con il quale a fatica scambiava qualche parola di circostanza durante il giorno, una notte avrebbe abusato di lei. Non riuscì a reagire, paralizzata e avvilita. Non solo in quei pochi minuti, ma neppure molti anni dopo quando ebbe la certezza che era lui, e non il fidanzato dell’epoca e poi marito, il padre naturale di sua figlia.

«Restai come paralizzata»

Oggi racconta la sua storia per liberarsi delle sofferenze di una vita, alimentate dalle incomprensioni suscitate a partire dalla “scandalosa” rivelazione in famiglia. “Allontanata” dalla stessa figlia (nel frattempo ha anche divorziato dal marito) dopo la scoperta della verità nascosta. «E’ a lei che mi rivolgo per chiedere comprensione, non merito altro dolore: io sono una vittima come tante altre donne che in tempi passati hanno scelto il silenzio. Ho vissuto a lungo con un sasso nello stomaco. Eppure vengo considerata colpevole: di che cosa? Sono passati quasi 50 anni e se avessi ucciso qualcuno sarei già libera, perdonata dai miei cari. Invece non ho fatto niente di male e mia figlia purtroppo non mi parla più». Ricorda come fosse ieri la data e le circostanze di quella che lei definisce «violenza». «Facevo anche da tata: nella camera dormiva anche il bambino, il suo bambino: come avrei potuto gridare? Ero paralizzata, le stesse parole le ho sentite dire in televisione da Asia Argento, con il produttore famoso, ma c’è da considerare che quando è successo a me erano altri tempi«.

«Chi mi avrebbe creduta?»

«In quella casa facevo la serva, come si diceva allora. Chi mi avrebbe creduto? Cresciuta all’obbedienza come avrei potuto denunciare?». Lasciò il lavoro pochi giorni dopo il fattaccio e quando si ritrovò incinta non pensò neppure per un momento a quella spiacevole parentesi, ma all’amore del fidanzato («Facevamo progetti da tempo, non prendevamo precauzioni») con il quale si sposò di lì a breve. «Era stato tutto così strano e veloce, non fui nemmeno sfiorata dal dubbio». Il processo di rimozione interiore fece sì che la donna accettò, qualche anno dopo, la proposta della moglie del professionista di tornare a fare le pulizie in quella casa. «Per un paio d’anni, solo d’inverno: d’estate facevo la stagione. Col padrone di casa, sempre rapporti formali».

«Mia figlia era anche sua»

Ma un giorno, dentro l’armadio, trovò qualcosa che riportò tutto a galla: «Era il calco di una dentiera: lui aveva lo stesso raro difetto diagnosticato alla mia bambina. Rimasi sotto choc. Da allora il sospetto è diventato un tarlo. Provai a balbettare qualcosa davanti al professionista, ma ancora provavo soggezione e lui mi zittì senza tanti complimenti». Con il passare del tempo la figlia «cresceva e io rivedevo in lei lo stesso sguardo di quell’uomo, il medesimo tono della voce». «Non sapevo che cosa fare, nel frattempo le cose con mio marito non andavano neppure bene. Sentivo parlare del Dna e ne parlai con la mia ginecologa: Se vuoi conosco un esperto che può aiutarti a toglierti il dubbio, anche se la prova fatta così non ha valore legale». L’occasione capitò quando la donna andò in pensione, ma si prestò a lavorare qualche ora per la coppia. «Presi dei capelli di lui dal pettine». Dal laboratorio ebbe la risposta che temeva, ma in cuor suo già conosceva. Il padre era proprio il professionista.

La verità nascosta

Accadeva dieci anni fa. «Caddi in depressione e alla fine fu uno psicologo a consigliarmi di raccontare tutto. All’inizio sembrava filare tutto liscio, poi però, mia figlia, con la quale fino ad allora avevo avuto un rapporto splendido, cambiò atteggiamento». «Tra noi si è aperta una ferita che non si è più rimarginata: ho parlato anche con il padre naturale e so che loro si sono incontrati, chiariti, forse arrivati a un accordo. Di certo a lei non interessa intentare una causa di paternità. All’improvviso, mi sono ritrovata esclusa, quasi additata, trattata come un’ingannatrice che l’ha tenuta all’oscuro fino all’età adulta. Perché non lo hai denunciato allora? Facile a dirsi adesso, meno se ti ritrovi a diciotto anni (la maggiore età scattava a 21), senza arte né parte negli anni Sessanta. Speravo di liberarmi della mia sofferenza e invece è aumentata, né è servito cercare una soluzione legale (si è rivolta all’avvocato Stefano Caroli ndr)».

La sofferenza continua

«Credevo che almeno mia figlia potesse capire, invece non so che cosa le sia stato lasciato intendere. Raccontare la verità era una cosa che dovevo a me stessa, alle altre donne che non ne hanno il coraggio anche di questi tempie e anche a lei. Quanto al professionista, che ha provato a offrirmi dei soldi senza che io li prendessi, mi ha detto di non bussare più alla sua porta perché non mi aprirà. Lui è anziano e io non intendo stravolgere le vite degli altri, ma soltanto riavere indietro la mia e con quella l’amore di una figlia perduta, alla quale voglio molto bene: questo sfogo è un messaggio in bottiglia indirizzato a lei».

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