Figlio minorenne sorpreso senza patente. Nei guai il papà pezzo grosso della polizia

Rimini

RIMINI. L’aver cercato di porre riparo alla bravata del figlio, all’epoca dei fatti minorenne, rischia di costare un processo penale a un dirigente superiore della polizia di Stato, per lungo tempo in servizio a Rimini. Secondo l’accusa avrebbe chiesto agli agenti della polizia stradale che avevano pizzicato il ragazzo diciassettenne a Rimini alla guida dell’auto di famiglia, evidentemente senza patente, di “ammorbidire” la versione da mettere a verbale, così da far risultare che il minore era semplicemente in fase di parcheggio e non viaggiava su strada. Un favore che gli agenti si sono ben guardati dal fargli, al punto che uno di loro si è premunito addirittura di registrare l’intero colloquio. Il pm ipotizza la violazione dell’articolo 319 quater del codice penale (“induzione indebita a dare o promettere utilità”, una sorta di concussione per induzione) sebbene non risulti che l’indagato abbia offerto qualcosa di concreto in cambio dell’accondiscendenza degli agenti (che non c’è stata). Stando agli accertamenti delle fiamme gialle il dirigente di polizia avrebbe anche cercato di fare un tentativo in Prefettura, senza successo, per vedere se era possibile limitare i danni. In questo caso il confine della violazione penale non sarebbe stato, però, varcato. La procura aveva allargato il campo ad altri episodi e ad altri poliziotti (nessuno dei quali attualmente in servizio a Rimini) per scoprire se qualcuno avesse usufruito di agevolazioni e favori “approfittando” della divisa. Per accertare eventuali responsabilità, e per capire se i favori concessi fossero effettivamente sproporzionati rispetto a quelli che si possono fare in un normale rapporto di amicizia, la guardia di finanza ha convocato e ascoltato commercianti e imprenditori del Riminese: non è emerso niente di rilevante.

Il filone sulle presunte concussioni era nato a partire da un’altra indagine della Dda di Bologna, partita su input della questura di Rimini, riguardante due poliziotti all’epoca dei fatti uno in servizio in questura l’altro in procura, accusati di accesso abusivo alle banche dati delle forze di polizia. I due avrebbero abusato delle proprie credenziali raccogliendo informazioni di ogni genere (dai precedenti ai redditi, dal luogo di residenza fino alle titolarità di telefonini, case e autovetture) per conto di privati e comunque con finalità estranee all’ufficio. Nel corso dell’inchiesta sono state intercettate delle conversazioni dalle quali si è sviluppato il secondo filone. Alla fine nella rete dell’inchiesta è rimasto incastrato solo l’indagato “cuore” di papà con la storia della “patente” (si è ancora nella fase delle indagini preliminari, l’interessato non ha ancora potuto fornire la propria versione dei fatti e non c’è stato il vaglio di un giudice), ma da qualche colloquio captato dai finanzieri è emerso anche qualche comportamento non sanzionabile penalmente, ma poco edificante, specie per chi indossa una divisa. È il caso di un poliziotto che rivolgendosi a un collega pugliese all’indomani di un grave incidente ferroviario nella zona si domanda (sul serio o per “scherzare”?) chiede se c’è la possibilità di rimediare un biglietto tra i rottami per poi magari inventarsi una richiesta di risarcimento danni.

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