Fallimento Titan Bagno: bancarotta preferenziale

Rimini

RIMINI. Un pool di banche aveva messo lo zampino nel doppio crac di due aziende “sorelle” a cavallo del confine con San Marino (Make e Titan Bagno), al solo scopo di recuperare i propri soldi, attraverso la trasformazione di crediti già “chirografari” in crediti “privilegiati”.

Un’ipotesi ardita che per la prima volta a Rimini aveva portato, nel novembre 2013, al sequestro preventivo di una somma complessiva di oltre sei milioni di euro direttamente dalle casse degli istituti di credito coinvolti nell’operazione (Unicredit, Carim, Banca delle Marche, Agricola commerciale di San Marino) e al coinvolgimento di alcuni loro funzionari (tre dei quali direttori di filiale a Rimini), con l’accusa di bancarotta fraudolenta (preferenziale) in concorso con l’amministratore di diritto e quello di fatto della società “decotta”, al centro della vicenda. Il prosieguo dell’inchiesta, coordinata dal pm riminese Paolo Gengarelli, ha allargato il campo delle responsabilità ad altri bancari, fino a toccare anche chi - all’epoca dei fatti (2011) - era ai vertici sia di Banca Marche sia di Carim (tra le trentatré persone alle quali è stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini figurano anche due commissari straordinari nominati da Bankitalia per l’istituto riminese).

I funzionari, secondo l’accusa con l’avvallo dei superiori, per rientrare dai prestiti non coperti da garanzie all’impresa che operava a San Marino (successivamente divenuta insolvente) avrebbero determinato la trasformazione del credito attraverso la concessione di un mutuo fondiario, assistito da garanzia ipotecaria, a una società “sorella” della prima, sorta in Italia. In realtà i soldi erano destinati a ripianare l’esposizione debitoria iniziale. La complessa indagine prende in esame le vicende della società di diritto sammarinese Titan Bagno s.a., riconducibile a una coppia di fratelli riminesi, Luca e Monica Baldinini (difesi dall’avvocato Alessandro Catrani). L’azienda, per anni leader nel settore degli arredi da bagno (come testimonial aveva ingaggiato il campione di nuoto Filippo Magnini), prima della crisi occupava un’ottantina di persone. Le banche che avevano finanziato a lungo l’attività senza lesinare i fondi, improvvisamente chiusero i rubinetti proprio nel momento del bisogno e “minacciarono” il rientro dell’esposizione che nel tempo aveva raggiunto i sei milioni e mezzo di euro. Di fronte allo spettro del fallimento, gli imprenditori riminesi optarono per il trasferimento delle attività della società in Italia, a Coriano attraverso la costituzione della Make srl. Un’operazione “Controsenso” (il nome con il quale i finanzieri battezzarono l’inchiesta). Gli amministratori (di diritto e di fatto), così facendo, da una parte speravano di rinverdire i successi degli anni precedenti e, nello stesso tempo, rispondevano anche alle esigenze di rientro delle banche italiane che rischiavano di rimanere con un pugno di mosche in mano, in caso di fallimento a San Marino.

Nella Make vennero fatti confluire anche i beni immobiliari della famiglia e così il pool di banche, pur trattandosi di una società economicamente già gravata, non ebbe difficoltà a erogare il finanziamento richiesto con la condizione che i soldi fossero utilizzati per il pagamento di brevetti e “compagnia bella” alla Titan Bagno. Si consentì così di liquidare la società estera, particolarmente scomoda perché all’epoca inserita nella black list dalla Repubblica di San Marino. L’azienda sammarinese, a sua volta, poté restituire quanto dovuto alle stesse banche in ragione delle esposizioni pregresse. Gli istituti di credito, inoltre, si ritrovarono in prima fila - in quanto creditori privilegiati - quando, nonostante gli sforzi, la stessa Make fallì nel marzo 2012. Ecco perché l’accusa ha alzato il tiro coinvolgendo tutti quelli che avevano avuto un ruolo nel “predisporre o favorire la concessione dei mutui pianificando la destinazione dei fondi”. Gli architetti dell’operazione, però, non avevano fatto i conti, è il caso di dirlo, con i finanzieri. L’avviso di conclusione delle indagini prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Nell’inchiesta è coinvolto anche un noto commercialista riminese: il professionista avrebbe “studiato” l’operazione con la quale l’imprenditore in difficoltà avrebbe ceduto, a parziale saldo dei debiti, un appartamento in montagna alla moglie di uno dei fornitori, anche in questo caso, a discapito del resto dei creditori.

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